“Scene” è il titolo della mostra di
ritratti fotografici in bianco e nero di influenti personalità degli anni ’80
della cultura underground newyorkese
che Jeannette Montgomery Barron presenta a Milano dal 6 aprile in Corso Como 10
e di cui alcuni risalgono appunto al 1982, quando la fotografa iniziò la sua
carriera appena ventenne. Collezione che si arricchita per oltre un ventennio, presentando
anche ritratti di artisti italiani. Vi scorgiamo scrittori, artisti, attori,
musicisti entrare direttamente in relazione non con l’obiettivo – quasi tautologica
affermazione di sé – ma in un dialogo con l’essere umano che guarderà le
foto. La capacità della Montgomery Barron
è appunto quella di catturare il desiderio di colui che si sta facendo
fotografare, il desiderio di essere immortalato in qualcosa di tanto effimero
quanto di scolpito, in un momento, cioè, carico di spontaneità quanto mentalmente determinato.
In questo modo, pertanto, il mistero appare spontaneo, familiare, e ciò che è
familiare si tramuta nuovamente in ineffabile. Ha presa un dialogo in cui la
persona non appare mai in una posa ingessata, sebbene la mimi: queste
fotografie sono in costante moto di desiderio, sia della fotografa verso la
propria opera sia del personaggio ritratto nei confronti della rappresentazione
che vuole dare di se stesso.
La fotografia ha i suoi mezzi precipui
per giungere a formalizzare l’aspetto della realtà: uno dei più usati da
Jeannette è l’ombra, con le rade pozze di luce che si formano nella sua assenza
o nei suoi cali di tensione. L’ombra concorre a costruire
la personalità di colui che si sottopone al ritratto fotografico e colui che viene
ritratto desidera per questo scoprirsi nella rappresentazione che l’artista
crea tramite il mezzo fotografico. Ecco, dunque, che egli scopre di sé prima
ancora che il suo volto, il corpo vigoroso affossato nell’ombra, com’è nel caso
di Julian Schnabel, mentre cunei e spigoli taglienti rendono la fotografia uno
specchio rotto e ombre di oggetti improbabili si proiettano sul muro o, com’è nel caso di Ryuichi Sakamoto sotto la
pioggia, in una foto mossa dall’acqua e
dall’impossibilità di tener ferma un’immagine di sé che si vuole in continua
dissolvenza. Ma si veda anche lo splendido ritratto di William Burroughs tutto frammenti di ombra e luce, tutto un
affondare nel nero e un galleggiare nel lucore, tutto moto e stasi senza
soluzione di continuità. Ritratti non privi di una loro metafisica valenza: John Lurie la cui ombra si proietta
tre volte sulla parete in scale diverse con un sassofono sospeso in aria non
proiettante ombre o Rainer Fetting che sembra voler creare/replicarsi nel
modello che ha dinanzi. Ma anche certe costruzioni di interni in cui più spiccatamente
le persone che li abitano si fondono assumendone l’aurea: è il caso del
magistrale ritratto di Beatrix Ost-Kuttner e Adelheid Ost ove le pose, questa volta volutamente manierate,
riverberano il dialogo tra le sfere del lampadario ottocentesco e quello di
marmo e vetro poggiate sul tavolo da pranzo. Qualsiasi mezzo è buono, e ne esistono infiniti
nella faretra di Jeannette Montgomery Barron, per tratteggiare il ritratto di
chi vuole manifestarsi e sottrarsi,
contemporaneamente, attraverso la fissità di una definizione.
Rosa Pierno
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