Se il kitsch domina l’ambiente, le
case in cui viviamo, allora accettarlo, conviverci, può dare modo di sabotarlo dall’interno, di
trasformarlo fino a fargli dire qualcosa, se non di contrario, di diverso. E’
questo l’obiettivo che persegue Gisele Amantea, artista canadese che ha già al
suo attivo numerosissime mostre. Se il pretesto per l’ideazione dell’opera è
dato, appunto, dall’oggetto kitsch, esso non è più immediatamente ravvisabile
nell’opera artistica, poiché di esso si
colgono alfine allusioni, riverberi, echi, materie manipolate e riforgiate,
sensi e modalità di impiego differenti. In particolare, fin dai primi lavori, Gisele erge altari enormi con piccoli
oggetti in ceramica (tartarughe, cappelli da cow-boy, ananas, casette)
sovrastati da vasi dalle forme più improponibili, eppure familiari perché abitano
le nostre case: sorta di Lari succedanei, senza scopo e senza senso, i quali
non sono né giocattoli per bambini né utensili né oggetti decorativi a pieno
titolo. Tuttavia, nelle opere realizzate con siffatti materiali si percepisce
nettamente un’azione di recupero semantico.
Nessuno saprebbe esattamente
individuare una nuova funzione per essi, eppure basta aprire un cassetto anche
nella casa più ossessivamente minimalista per tirarne fuori qualcuno. Interrogarsi
su questi oggetti apre uno squarcio sui nostri comportamenti, sulle nostre
abitudini, al di là dell’aspetto merceologico o consumista. Tale oggetto,
proprio perché così banale e
insignificante, denuncia il nostro bisogno di circondarci di ciò che è noto, di
ciò che è privo di pretese. La Amantea, facendolo assurgere a protagonista
indiscusso, mette il dito nella piaga della nostra mancanza di educazione
estetica. Ma allo stesso tempo rivela anche l’affettività che nutriamo per questi
oggetti, il fatto che li rendiamo, in ogni caso, veicolo di comunicazione.
Il kitsch è subdolo: riesce a creare
oggetti fascinosi, i quali difficilmente si concedono a una riconoscibilità immediata.
Si veda l’uso del “flock”, materiale che nasce dallo scarto della lavorazione
di tessuti di nylon. Esso viene recuperato e utilizzato, tramite incollaggio su
un supporto rigido, come carta da parato o pannelli, per il suo aspetto
vellutato, lucido, di incerto statuto. Recuperando anche disegni appartenenti
al modernariato, Gisele, con complesso lavoro, costruisce intere pareti decorate
con questo materiale. L’aumento di scala, mette in risalto il fatto che anche
un disegno ricercato può cadere facilmente nella trappola del kitsch (si vedano
anche le installazioni che replicano il disegno dei merletti della tradizione
normanna, ove questa volta sotto la lente d’ingrandimento cade il lavoro
femminile, mai totalmente esente da una caduta nell’abisso dell’insensato). La
serialità di tale riproduzione, introdotta dall’artista di origine italiana, come
un avvicendamento metalinguistico, produce a sua volta una ripetizione che non vuole
essere condanna per le attività
artigianali, di qualsiasi tipo o risultato esse siano. Gisele Amantea è una di
quelle artiste che amano lavorare sulle faglie, sulle discrasie, che non vogliono saldare nessuna
contraddizione, ma che trovano in esse il sale dell’esistenza, il valore
indiscusso dell’atto conoscitivo. Conoscere non può che voler dire scoprire
contraddizioni e persino comprendere i motivi della loro necessità (ci viene in
mente la ricostruzione, da parte di Gisele, di un oggetto che riproduce una
sorta di medaglione realizzato con conchiglie che le donne di Halifax
affidavano ai loro uomini che andavano per mare, contenente la frase “Pensa a
me”).
E ancora, vogliamo rammentare, prima
di concludere, un altro raffinato lavoro della Amantea, in cui l’artista
incrocia continuamente esistenza e finction, film e arte, fumetti e video, per mostrare
che la nostra realtà esistenziale non è separabile dal nastro continuo della
proiezione cinematografica: ciascuna vita è intersecata da immagini filmiche e in
essa ci sono almeno un centinaio di orsetti di peluche e portachiavi, di cactus
di ceramica e gondole veneziane. In questo senso qualsiasi recupero è recupero
di affettività e di rispetto, di curiosità e di morbosità, di passività e di
creatività.
Rosa Pierno
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