Da sempre attentissimo alla natura al punto da utilizzare solo materiali che ci consentano di riattivare il contatto con essa, e questo non solo per la volontà di non farci dimenticare che è la natura il nostro ambiente precipuo, ma anche per consentirci di riscoprire, attraverso un trattamento delle superfici che potremmo tranquillamente definire artificiale, le sue infinite risorse, Paolo Di Capua, le mette in luce e le trasforma, creando così quel ponte tra naturale e culturale su cui, oggi, si combatte la battaglia più impegnativa e decisiva. L’artista ci induce a meditare sul fatto che è di fondamentale importanza non assuefarsi alla banalità di un luogo precostituito e passivamente ricevuto e che soltanto nel dialogo con le forme naturali esista la possibilità di creare mondi abitabili, forme utilizzabili. In questo senso, alle opere di Di Capua non è mai possibile assegnare la definizione di astratto, poiché esse testimoniano di una continua trasformazione di elementi reali, di una modalità relazionale accuratamente cercata con ciò che ci circonda al fine di creare forme di assoluto equilibrio e integrità, circondate da un sonoro silenzio, intrise del senso dell’abitare nel mondo.
Nella mostra che si è tenuta nel 2010 (23 set. – 12 ott.) presso la galleria la Nube di Oort di Cristian Stanescu, in Roma, Paolo Di Capua ha offerto alla nostra visione un’opera-nastro costituita da una serie di tasselli. Il tassello base è un quadrato di legno di cui si vedono le fibre non piallate, quasi tirate via dall’albero e che, dunque, presenta profondità diverse e diverse curvature della superficie ed è dipinto con uno smalto bianco ad acqua. Tali tasselli, disposti orizzontalmente sulla parete e alternativamente nel senso delle fibre, costituiscono una sequenza, quasi un codice da decifrare, dove le categorie che si trovano a dialogare sono geometrico e irregolare, naturale e artificiale, liscio e scabroso, atteso, inatteso. E’ sufficiente questa semplice quanto raffinata concatenazione dello snodarsi delle superfici a rendere percepibile uno spazio altrimenti indifferenziato. Con assoluta chiarezza comprendiamo così che la nozione di spazio non esiste in maniera generica e vuota, assoluta e indefinita, ma che esso può essere visualizzato soltanto con una struttura che lo articoli, che lo renda un oggetto linguistico, diremmo per traslazione metaforica col linguaggio.
Il lavoro sulle superfici, sulla trasformazione della materia attuata solo con specifici mezzi, e volontariamente limitati proprio per mettere in risalto le potenzialità della materia stessa, è sempre volto, quindi, a massimizzarne la visibilità, non solo lavorandola in modo apparentemente grezzo per maggiorarne le irregolarità o scalfendone la superficie - sia essa di legno o di pietra - con uno scalpello per ottenere una diversa “pelle” che renda la materia altro da sé, inusuale ed estranea a se stessa, ma anche dipingendola con i colori bianco e nero affinché si percepisca una continuità lì dove altrimenti si percepirebbe irregolarità: le assi così accostate, infatti, mostrano una conquistata ombreggiatura, innaturale, da ricondurre, quindi, a familiarità, pretendendo da noi uno sforzo immaginativo e conoscitivo. Inoltre, in una delle installazioni presentate nella mostra, quattro assi di legno convergendo in un punto coincidente con il livello di calpestio percorso dallo sguardo del fruitore obbliga il corpo, grazie alla perlustrazione di questa traiettoria, a simulare il moto. In tale guisa, l’elemento base estratto dalla natura e modificato dall’artista funziona da generatore dell’orizzonte e dello spazio percorribile: luogo – prima inesistente – in cui l’essere umano ritrova la sua libertà e il suo equilibrio, il suo campo creativo e decisionale. Spazio in cui, peraltro, il caso è convocato quale elemento costituente, non solo perché il suo ruolo è basilare in natura, ma anche perché Di Capua gli riconosce una funzione altrettanto importante nel progetto dell’opera. E’ in questo senso, che pietre erano accostate accanto a una delle installazione per consentire al fruitore di imporre il suo atto, di marcare la sua presenza nel contesto di ricezione dell’opera. Caso che non è mai preconfezionato dall’artista, ma di cui appunto sono contemplate le possibilità, attivate allo stesso modo in cui è stato potenziato lo spazio.
Indichiamo un altro elemento che ci sembra di dovere sottolineare come componente essenziale nel lavoro di Paolo Di Capua, ed è la suprema raffinatezza che costantemente si sprigiona da tutte le sue opere. Ci riferiamo all’installazione realizzata con ventagli coreani in carta e legno. La superficie ondulata della carta pieghettata funge da ulteriore elemento nel dialogo fra i soli colori nero e bianco, con cui Paolo Di Capua ottiene un susseguirsi di affascinanti immagini – figure geometriche e decorazione segnica – mosse e vibratili. Essendo la geometria e la scrittura, simboli della presenza umana nel mondo, esse costituiscono un non secondario fulcro propulsivo da cui scaturiscono le molteplici valenze percettive e concettuali che Di Capua innesca con le sue opere. Di queste ritrovate percezioni estetiche – oramai così rare in un mondo dell’arte che non lascia nessuno spazio alla cura dell’operare, alla decantazione del gesto e alla durata – siamo grati a Paolo Di Capua, il quale, con le sue opere, schiude dinanzi a noi una ulteriore via esperienziale, uno spazio da esplorare e da reinventare, e di cui ci rende artefici.
Rosa Pierno
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