E’ necessario riportare la clausola che Gio Ferri ha anteposto alla sua raccolta “Fecondazioni”, Book Editore, Bologna 1996, per dare indicazioni al lettore circa l’intento con cui sono state create le quarantasette poesie, di cui ne presentiamone qui solo alcune:
“Malgrado certe apparenze questo esercizio scritturale non è né piaggeria dedicatoria nei confronti di alcuni poeti prediletti o amici, né un manierismo reiterato di citazioni, né tanto meno un ludo ‘alla maniera di…’: si tratta più materialisticamente di una serie di prelievi minimi (appunto materici) da gestire nell’ambito di una progettualità segnica (coinvolgimento fisico nella biologia della parola, nel suo formativo e metamorfico in/significato). Reperti di un laboratorio di letture e di corrispondenze che vengono arbitrariamente, ma non del tutto (c’è una catena genetica che trascina il fare…), immersi nel brodo di coltura di una utopia formale. Nella convinzione che, anche il più minuscolo brandello di poesia, sia una dis/misura fecondante, un essere vivente palpabile e prolifico”.
Il verso prelevato da Gio Ferri dall’opera di altri poeti, anche lontanissimi temporalmente, consente di cogliere la matrice che innerva le poesie della raccolta. Si potrebbe azzardare che, scorrendo il testo poetico, visivamente e uditivamente si noti come il primo impulso generativo sia generato dal fonema. Non il senso, o almeno non in prima battuta. In ogni caso senso mai slegato dal suo valore fonetico. In questo senso, la poesia di Gio Ferri è sempre straordinariamente attenta a veicolare il piacere dell’apparenza, della sonorità fisica, privilegiando quelle caratteristiche che sono specifiche dell’arte. Il carattere fortuito del gioco di parole o quello più materico dell’assonanza, le regole che danno il senso come un risultato e non come un concetto da restituire non sono azzardi gratuiti, poiché inerenti alla stessa materia poetica.
Il meccanismo principe della vitalità poetica opera con regole anche incongrue e illogiche, in ogni caso non usuali, poiché appunto siamo nel regno della materia poetica. All’interno del quale, non si vede perché escludere le forme che sono appartenute a epoche diverse (quelle di Leopardi o di Petrarca, ad esempio, che soltanto un frainteso concetto della novità di stampo romantico può relegare nel cantuccio degli archiviati). La lingua è perennemente viva, viva come un organismo e produce per semplice accostamento visivo e uditivo amplificazioni del senso, i quali ci rendono consapevoli che la saldatura tra presente e passato non è né aleatoria né irrealizzabile. Ma, anzi, che i due termini indicano anch’essi, come tantissimi altri concetti, una cesura del tutto strumentale. Appartiene, infatti, alla poesia la capacità di ristabilire connessioni che in altri ambiti, come quello filosofico, appaiono tranciate.
C’è da segnalare come a partire da un verso prelevato da poesie altrui, Gio Ferri forgi poesie assolutamente autonome, facendoci pensare agli straordinari quadri picassiani in cui il pittor spagnolo rifà i capolavori di Velasquez, di Goya, con uno stile personale e un linguaggio autonomo. Una silloge, questa, che, con la sua carica sperimentale e la sua capacità metamorfica, riesce, cavalcando l’onda della tradizione e dell’avanguardismo (Sanguineti, Gramigna) a restituire a forme già storicizzate una sorta di nuova fermentazione, riattivando divisioni cellulari, partorendo un nuovo corpo testuale, a testimonianza che nessuna forma debba riposare sugli allori, che lievita, che è virtualmente instabile, che cerca costantemente altri materiali poetici, con cui innestarsi e incrostarsi. Se mai respiro poetico fosse, sarebbe questo e, certo, un ansimare vitalissimo e felice.
(da Giacomo Leopardi)
così da incanti infine dagli ànimi
paiono le irrisorse rivolte al fare
ma sono tanti i lustri e le calure
anco irrimorse e in quanto rilasciate
in vanto che allor solo lieve sembiante
indugio in altro tempo e intanto il guardo *
i carmina incompiuti speranza càrnea
in che rieda e m’aiuti trovar me e i liuti
altro non dà orora che in levare
le parole in sensate sensi innervati
e la cosa si fa di sé anìmula
e le tracce in cantate spirano spazi
scure beltà s’inspirano in segni
quando in segnata ora infiora l’amanda
* (da Il Passero solitario di G.Leopardi)
(da Roberto Sanesi)
Le rassodate stanze,
il poema dell’irreversibile,
presente smemorato
in quell’astante ricordato,
sciacqui di gorgoglii
entro le risacche domestiche.
Quelli eroismi scaduti
a questi esaltati silenzi.
Si percorrono di
verbo in verso, di lemma in làmia,
d’orrori ciechi e oltranti,
le gràffie spinte insofferenti,
voglie insignificanti
oltre abusati referenti.
Sensitivi parònimi
e paratattiche scadenze.
Si vogliono ridire
e tanto donano in ammassi.
Fino a prender nota
di quali figure si affollano, *
e di quante misure
orora si sommano in quanti
i virtuali teoremi
mentre la materia si dà.
* (da Attorno al tema di una stanza chiusa di R.Sanesi)
(da Edoardo Sanguineti)
atriali misure arse misture
s’acquietano ora l’anime proterve
deliri servili meritano arnie
reginali entro le false clausure
abili ironismi poetanti àleano
simuli verismi plateali e astuti
(epoche discrete rischiano i resti)
ancorché assidui s’alzino anatemi
terminali utopie trombo vasali
cristi seriali oranti venali
le calure anali trionfano sensuali
affacciati abissi urlano scroti
ormai dei canti restano gli sprechi
venite ai vermi dei vulcani vuoti *
* (da Alfabeto apocalittico, in Bisbidis di E.Sanguineti)
(da Andrea Zanzotto)
Al sibilo lamento
ora s’oppone aerato
movimento di trillo *
al margine dei rischi
geometriche tangenti
e nuove brezze aulenti
s’arresta orora il senso
in sensuati e artati
terzi dìnami e solerti
quei battiti inserti
quanto fallose màntriche
cèdule disillusioni
lasciano ai tattili suoni
astuti concrezioni
vivide e sensitive
ferme aggettive
* (da Ascoltando dal prato, in Idioma di A.Zanzotto)
(da Francesco Petrarca)
Si furon gli atti suoi dolci e soavi
ch’al duro fianco il dí mille sospiri
porto nel petto, et veggio ove ch’io miri
alle sfortune mie tante, et sí gravi
lagrime rare et sospir ‘lunghi e schiavi
che l’alma disperando à preso ardiri
con leggiadro dolor par ch’ella spiri
nel cor, come colei che tien le chiavi.
Spirto felice ‘gnor si dolcemente
ridesta i fior ‘tra l’erba in ciascun prato,
con forza assai maggior che d’arti maga
ogni bellezza, ogni vertute ardente,
il bel viso dagli angeli aspectato,
ch’un sol dolce penser l’anima appaga. *
* (dai sonetti XCI, CXXXI, XCVI, CCCIII, CLV,
CCXXXVI, CLVIII, CXLIII, CCCLII, XLII, XLII, CI,
CCCXXXVII, XLI, LXXV, in Rerum Vulgarium
Fragmenta, di F.Petrarca)
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