Una raffinata indagine sui fenomeni metereologici che ci fa balzare in mente l’amore per la cattura del fenomeno naturale così com’è stata tentata dalla cultura orientale, ma in cui non è dismesso l’attacco pervicace e insistente con cui Bonacini chiede al dato percettivo la restituzione del dato concettuale. Quando la riflessione voglia essere desunta da un dato percettivo e non da un’idea, ci si sta volontariamente situando nel solco di una contesa in cui il risultato della riflessione non sarà quello di maggior peso nel bilancio finale.
E se persino il dato “del vento ruvido” è messo alla berlina: “Allora è un soffio crudo e indecoroso / un fischio stupido, indeciso / appesantito da un attrito che ripete // senza nuvole di caldo o di fragore / il suo dilemma sgretolarsi fra le cose”, ciò indica che siamo nell’arena, che assistiamo a uno scontro, poiché si avverte subito, anche, che questa volta la voce di Giorgio Bonacini in “Sequenze di vento”, Le voci della luna, 2011, non è mite, è irata. E’ l’ira di chi vede sotto le proprio unghie la roccia sfaldarsi in polvere, l’evento mutare in sfacelo, le forme impallidire in spettri e l’annullarsi di ogni distanza tra principio e fine.
In tale sfarinarsi dell’esistente, in tale sfibrato resistere, inevitabilmente il linguaggio viene trascinato, pare seguire la stessa sorta di consunzione a cui sono sottoposti gli elementi naturali: “scatena sul volto un’idea, tra la scena disfatta / e la prova che inciampa, che abbatte”. La riflessione articolata attraverso il linguaggio, o attraverso l’arte plastica: “in un verso ogni nostra clausura / una semplice forma, un tormento, una linea / di freddo sbagliata che inganna”, subisce non lievi scosse. Travolte le forme naturali assieme alle forme prodotte dall’essere umano, queste ultime mostrano però un viraggio che non crediamo essere presente nella natura: quell’artificio che costituisce un aggravio rispetto alla posizione del dato percettivo, in relazione a cui, anzi, la natura, quasi per contrappeso, acquista maggior certezza: “L’aria, quasi fosse forte e vera / con un fischio ha tolto al vento i gesti”.
Comincia a disvelarsi il rovesciamento che i versi di Bonacini mettono in atto: appare fissa e mobile qualsiasi cosa rispetto alla lingua, alla sua scivolosa e non scalabile sostanza, a tal punto che il poeta denuncia l’esigenza di “rompere / parole, spezzettare i ritmi, rigettare sibili”. Non più il vento, ma la lingua svuota! Una spola ininterrotta tra pensiero e natura rinsalda le lacune sfilacciate, ritesse le maglie sfilate, con altrettanto imperterrito moto che avrebbe mare, ma è moto umano, moto poetico. Nient’affatto persa la partita, non c’è che da giocarla, guadagnando a sé nuovi territori in cui l’interazione tra riflessione e dato naturale consegua un nuovo modo di avvicinarsi a ciò che percepiamo, un nuovo modo di pensare e va da sé che con esso s’intende un abbandono delle categorie del pensiero occidentale, le quali sono costruite tramite l’esclusione, la separazione, la distinzione.
Ma forse è alla fine istantanea di un verso
che il vento nel sogno può far cambiare
portando nell’intimo un suono rivolto
un calore d’assalto, uno sguardo difficile
amaro, più chiaro dei segni e del caldo.
Non che sia possibile, l’avevamo detto fin dall’inizio, ricomporre ciò che definiamo come separato e incerto. La voce di Bonacini s’infarina alle cose con perplessa adesione, ma la vera meta è una poesia che nel suo farsi e disfarsi poggi saldamente i piedi nelle forme mobili e variate, flessibili e disfacentesi, riuscendo a “dare tronco a un esilio / di gioia distratta”, volgendo quelle che apparivano come debolezze in punti di forza. E dove a poco a poco gli elementi della natura si fanno segni e i segni della lingua divengono una seconda natura, definibili più come coesistenti e meno come coincidenti: “insetti lividi di brina e di scritture / fatte a fango con la mente, per le mani”.
Rosa Pierno
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