La scena disegnata dal libro di poesia di Ida Travi “Tà. Poesie dello spiraglio e della neve” Moretti & Vitali, 2011, è affollata da oggetti e parole, entrambi utensili, eppure con una pala non si può scavare un’anima. Pare un ostacolo ineludibile. Una di quelle evidenze tragiche, come un mare separato in due. Né basterà togliere il cappotto per mostrare le spirito. E’ dichiarata guerra, è mostrato il taglio non rimarginabile, l’assurdo (richiamato anche nel breve antefatto in cui si fa riferimento all’attesa beckettiana di non si sa di chi) compito che siamo chiamati a dirimere semplicemente perché esistiamo.
Eppure non peritano, le cose, in un subdolo trasformismo, di assumere le sembianze dell’immateriale. Musica sarà gesso che picchia in testa. Neve diventa muro. E tutto questo determina anche la sensazione che i simboli siano rivoltati o ipertrofici: troppi significati stratificati, fra i quali non si può più selezionarne uno trainante, che abbia il valore, appunto, di un simbolo. Il passo è breve: immediatamente essi assumono una sinistra autonomia: “Come poteva il sole brillare così / sulla nuca nera, sulla schiena nera?”. Le immagini, innescate da tale proliferazione semantica, vengono infilzate come perle per comporre collane di storie: “ Ci vuole un tamburo tale / da mettere i sassi in cammino. // Tu cerca nella neve la briciola smagliante // Segui il polso infantile, seguilo / fino alla fiamma, fino al colletto bianco”. Storie scompaginate, brandelli di storie, o meglio, nuclei da cui può partire un intero racconto, una saga. L’innocenza del racconto, riposando su un suolo infido. Saranno ancora quegli stessi simboli a mostrare la doppia faccia di ogni medaglia, l’altro aspetto delle cose, quello raccapricciante: che slega e fora. Inutilmente si farà riferimento al sonno come elemento riparatore, che solleva da tale stressante realtà. Non sarà che il sonno procura gli stessi deliri presenti nel linguaggio? La trappola è perfettamente delineata nei suoi meccanismi, nelle cesure che causa, negli impedimenti che determina. “Olin ti sbendo. Tu guarda / dall’altra parte, guarda / se per caso è fiorito il braccio/ come è semplice la testa adesso”. La desiderata pacificazione può darsi sia solo desiderio di una convivenza possibile. E comunque non è detto che l’incubo non svanisca. Potrebbe diventare sogno. Anche se è più probabile che visioni serene e incubi non siano separabili, che mescidino i loro regni. Probabilmente una possibile via d’uscita consiste nello spezzare gli oggetti, nello svelarne i meccanismi di funzionamento: “Chi è stato?! / Chi ha spezzato il ramo? / Era la legge / Resisteva, come un abete / E adesso? / Si vede l’età / Si vedono i morti attraverso i secoli”.
Lì dove niente è come sembra, mantenere la calma è azione eroica. Ritornare in sé, pare una strategia sufficiente: limitare l’uso delle parole sembra certo azione paradossale in un poeta. Ma non pare ci sia scelta: “non puoi discutere con le rose / hanno sempre ragione loro”. La coscienza è assediata e nello stesso tempo si sa che è lei che produce le proprie catene. Il poeta attua una strenua resistenza e denuncia lo stato di fatto. Sono continui gli incitamenti che i personaggi sulla scena poetica si rivolgono per tenere tutto sotto controllo: “Sii te stessa, per favore, lascia stare / il fantasma, metti via / quella stupida pala argentata”. L’intero poema appare come una fabbrica di immagini visionarie le quali vengono prodotte e rifiutate, affiorano e si allontanano. Dicevamo che la scena teatrale in cui i personaggi sono messi in dialogo è la scatola a cui il teatro contemporaneo ha affidato il compito di esprimere la gabbia esistenziale dell’epoca attuale, in cui il tempo è però un elastico: consente di passare attraverso i secoli, di ottenerne la compresenza, di sentire le voci dei morti, e proprio mentre la scatola diventa il meccanismo che intrappola, mostra sulle pareti interne dinamiche metamorfiche, paesaggi innevati, cieli inondati di luce. E anche il soggetto, in questo contesto ambientale, diviene oggetto, effettua la medesima metamorfosi delle cose: “Sono forse un martello io? Sono forse / un dannato martello colpevole di qualche cosa?”. Non estranea in Ida Travi anche l’eredità kafkiana, poiché ella descrive un’umanità che dalla ferrea legge è resa colpevole. Se a legge verrà opposto amore c’è da credere che non sarà atto risolutivo. La richiesta di essere sbendati, di vedere finalmente come stanno realmente le cose, di svellere il potere delle idee, forse esprimerà l’esigenza di restare aderenti alla pelle delle cose: “quello è il tuo osso, Attè / quello è il tuo fondamento”. Una soluzione può essere, dunque, quella di trasformare le parole in oggetti o è quella di far intervenire qualcuno, di cui l’attesa è segno. Favole crudeli si succedono senza interruzioni di continuità, favole disseminate di oggetti: sassi, fragole, alberi, neve, foglie, pane. Ma non sarà proprio la capacità della poesia a donare la possibilità di non essere banali, di non abituarsi a nulla, di non accettare niente come dato e tutto ricreare? Non è che retorica domanda. Parola è trappola e liberazione insieme.
Rosa Pierno
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