A partire dal problema di recuperare spazi che hanno perso i connotati originari per essere stati oggetto di insediamenti industriali o sfruttati in diversi modo dall’agricoltura, dall’urbanizzazione, e ora abbandonati, Gilles Clément nel suo libro “Manifesto del Terzo paesaggio urbano” Quodlibet, 2005, affronta la ridefinizione di queste aree proprio attraverso il loro stato indefinito, di scarto che li restituisce, in assenza di ogni decisione umana, alla loro naturale evoluzione biologica: è esattamente questo il Terzo paesaggio.
“Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana” si scoprono una quantità di spazi privi di funzione. Questi frammenti di paesaggio, privi di alcuna forma, sono tuttavia il luogo rifugio della diversità, spazi in cui, cioè proliferano animali, vegetali, batteri, virus: una diversità scacciata altrove”. Ogni organizzazione razionale del territorio produce un residuo: ”in ambiti rurale saranno i confini dei campi, i bordi delle strade, le siepi; in ambito urbano aree dismesse o in attesa di destinazione”. E’ evidente che rilievi, presenze geografiche che interrompano la sfruttabilità edificatoria o di coltivazione sono terreno principe della diversità. Se le riserve sono insiemi protetti dall’attività umana, i residui non beneficiano mai di uno statuto di protezione, ma accolgono specie primarie a cicli rapidi fino all’installarsi di una permanenza. Clément ha effettuato un ciclo di lunghe osservazioni sui terreni dismessi, con le quali ha raccolto una serie di dati inerenti all’insediamento e allo sviluppo delle diverse specie viventi, modalità con cui le specie indigene si mescolano alle specie esotiche, in questi che egli definisce sistemi aperti, che di fatto concorrono alla “mescolanza planetaria”. Nelle aree in cui interviene l’essere umano si constata una perdita di diversità di specie stabili, mentre la crescente antropizzazione del pianeta porta a un immenso residuo in cui sono presenti un numero ridotto di specie, in equilibrio con l’attività umana. E’ in questo senso che la questione del “Terzo paesaggio acquista una dimensione politica”, poiché per il suo mantenimento è necessaria una coscienza collettiva: “Ogni alterazione non reversibile del Terzo paesaggio compromette la possibilità di invenzione biologica, orienta l’evoluzione diminuendo in proporzione il numero di strade possibili”.
La specificità progettuale indicata in questo libro è che “Solo la moltiplicazione, lungo le maglie, dei residui derivanti dall’organizzazione del territorio permette di predisporre rifugi per la diversità”, ove naturalmente non è possibile prevedere le direttrici di sviluppo di queste aree poiché soggette alla fluttuazione dell’ambiente. In ogni caso, “La modificazione delle forme, la successione delle specie, il meccanismo dell’evoluzione propri del Terzo paesaggio sono incompatibili con la nozione di patrimonio” poiché è proprio il disinteresse per il Terzo paesaggio da parte delle istituzioni a renderlo possibile”. Clément fa sue alcuni elementi mutuati dalla cultura orientale: invocando la necessità del non intervento, del lasciare fare al naturale corso degli eventi, adattandovisi anziché imporre regole dall’esterno, in un inno alla non organizzazione. L’intervento del progettista-non progettista/giardiniere consisterà nell’aumentare le porzioni di terzo paesaggio esistenti, oltre naturalmente ad infoltire gli strumenti adatti allo studio di questi territori indecisi, e a “elevare l’improduttività fino a conferirle dignità politica”, “valorizzando la crescita e lo sviluppo biologici, in opposizione alla crescita e lo sviluppo economici”. In questo “rovesciare lo sguardo rivolto al paesaggio in Occidente” Clément ha in mente “altre culture del pianeta, specialmente quelle culture i cui fondamenti poggiano su un legame di fusione tra l’uomo e la natura”.
L’attenzione di Clément è, in questo manifesto, rivolta esclusivamente alle questioni biologiche ed ecologiche. Ma, come già nota Filippo De Pieri nella sua postfazione al libro - in cui cita anche altri libri dell’autore, i quali descrivono le sue esperienze progettuali di giardini - lasciare liberi i giardini di non rispondere a una forma prefissata a priori, vuol dire abbattere il problema della forma. Per Clèment il ruolo del giardiniere è soltanto quello di osservare e di orientare: il giardino, pertanto, esclusivamente come luogo di esperimenti sulle relazioni tra le specie, dove il giardiniere, appunto, ne introduce di nuove e ne studia gli effetti: “il processo attraverso cui il giardino si trasforma è più importante dei suoi stadi”. Naturalmente, il passaggio a un ambito estetico, pure sollevato dallo stesso Clément nel corso delle sue esperienze progettuali, se basato esclusivamente su considerazioni scientifiche mostre falle e insufficienze: non è sufficiente l’attitudine all’osservazione per insediarsi in un ambito estetico. Non basterà notare che le talpe procurano “in un giardino in movimento preziose forme di land art” o l’apparizione delle piante “vagabonde” “che muoiono in un luogo per rinascere uguali in un altro”. E, d’altronde, la volontà di ottenere una rappresentazione visiva del giardino planetario, esteso a tutta la terra senza soluzione di continuità, disegnando “ciò che sta tra e non ciò che è” se parte dalla necessità di “rinnovare il legame con il processo analogico di lettura dell’universo” in una sola parola, con l’estetico, allo stesso tempo fa apparire come una soluzione calata dall’alto quella da lui proposta di far riferimento alle categorie del sacro, del soprannaturale, del mito, del simbolo. Parrebbe, a noi lettori, che si voglia far entrare dalla finestra ciò che così precisamente si era tenuto fuori per esigenze legate allo studio scientifico degli ambienti in oggetto e con un atto arbitrario, che non fosse cioè motivato da una concettualizzazione inerente al fare artistico. Non basta combinare i simboli con l’equilibrio di un ecosistema per effettuare il salto di scala all’arte dei giardini. Genere, d’altronde, esplicitamente bistrattato da Clément.
Rosa Pierno
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