sabato 23 aprile 2011

Flavio Ermini “Antlitz” Anterem Edizioni, 1994

Si riparte dalle mani, affidando a esse il compito di traghettare il senso originario, quanto più vicino al corpo, meno distante cioè dall’immanenza del corpo. Ma il compito si rivela subito essere dei più improbabili da portare a termine: “Viene data fin dall’inizio la parola ai fratelli. Poteva essere l’alba o l’ora stessa del crepuscolo quando le acque volsero a loro quietamente. Niente fa pensare al velo”.   L’imprecisione dell’ora o almeno la sua indecidibilità ci fa nascere un sospetto: l’immagine è artificiale, è costruita esclusivamente dal linguaggio. Non c’è un’immagine reale, anche solo mnemonica che si stia descrivendo. A riprova la frase conclusiva della lassa: “Niente fa pensare al velo” che equivale a un avvertimento per i lettori. Altrimenti detto, il testo è costruito attraverso un collage onirico di narrazioni. E’ il mondo così come lo si conosce dalla letteratura. Più nessuna realtà. L’origine allora non sarebbe che un fondamento infisso nella trasmutabilità delle parole, nella loro vibratile presenza, fantasmatica consistenza.

Ci rendiamo conto che disseminate nella geometrica e calmieratissima misura delle lasse ci sono delle istruzioni per l’uso, qualcosa a favore dei naviganti, come un faro che illumini nella notte.  A che cosa servono istruzioni laddove si è appena mostrato che le parole sono mobili come sabbia? “Non è che un modo per deviare dalla strada fino ad ora seguita”. Meta-scrittura che serve ad interpretare la scrittura, a fornire le regole per giocare, che sia un cambio di scala o una presa di distanza, affinché non si venga catturati dall’angoscioso gioco, perché è strano, ma, in ogni caso, il testo sembrerebbe poter essere ascritto al genere della tragedia. Forse, allora, non eravamo stati sollevati dall’esistenza.

E che testo sia sempre da interpretare e che anzi la riuscita dell’interpretazione, perché ce ne sarà pur sempre una maggiormente adeguata, dipenda dalla maggior quantità di testi con cui si costruisce la propria lettura è cosa certa. Eccoci allora ripiombati nell’immanenza dell’esistenza: tema peraltro che costituirà l’oggetto ineludibile di ogni testo di Ermini. Sentiamo risuonare leggende e versetti biblici, testi moralistici e  testi epici. Ma anche film e quadri. “In assenza di luogo, nessuno prestò attenzione all’uomo dei camion al ritorno. Quanto al passato, la figlia stessa si accosta all’acqua. Solo a tarda sera venne data per certa l’innocenza del fratello.”   Al tentativo dell’interpretazione si accompagna anche la fuga in avanti, verso la soluzione, che sia almeno termine: “Avresti preferito incarnare l’uomo dei camion o quello del destino?” E’ possibile ancora una scelta o sugli asfittici specchi fra cui il testo rimbalza una determinazione individuale è impossibile? E tutto è già scritto? E che sia l’autore e non un dio poco differisce. L’universo che il testo impuntura, innalza, è completo e autosufficiente, sicuramente autodeterminato.

Certo, parrebbe a ogni mossa, a ogni lancio di dado, i quali determinano la presenza di una frase anziché di un’altra (quasi serie intermittenti con presenze diversamente dislocate a seconda del caso) le vie si biforchino e possibilità diverse si profilino all’orizzonte o forse sono solo diverse storie che s’intersecano senza possibilità di distinzione. Ma anche prologo e finale si scambiano di posto. Eppure non si cada nell’errore di leggere simbolicamente questo splendido testo. Tutti i simboli sono intercambiali all’interno delle narrazioni e le cose si tramutano e si trasformano vorticosamente. Ma si noti la quasi totale assenza di aggettivi, come se le cose fossero essenze prive di attributi e, quando ci sono, sono quelle che stanno attaccate alle parole, come se ne rivestissero lo scheletro o le rendessero più riconoscibili, quasi una sorta di cliché: bianche lenzuola, capelli sciolti, la città santa, l’alto poggio, lievi tracce, tarda notte. Alfine, la conclusione sarà impossibile e l’origine confusa nella moltitudine delle storie narrate. Resta il testo che pone il problema e che afferma che la soluzione è solo nel continuare a narrare. 
      

                                                                                                                    Rosa Pierno

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