“L’isola Tiberina”. Nessun particolare, filo d’erba, arbusto,
sasso: colore steso a tocchi, con corpose pennellate, materia con cui, coprendo,
elidere ciò che non ha importanza. Le pigmentate zolle, trapassando l’una
nell’altra, restituiscono i toni incisi nel ricordo: quell’ocra – ed è ocra
persino il fiume in cui le case dell’isola Tiberina e gli argini fintamente si
specchiano – contro il quale insiste uno svagato azzurro annuvolato.
“Civita Castellana, rocce rosse”. Nel tripudio di rocce e rami, di
tufo e acque, difficilmente distinguibili se non per la vivacità del tono e la
prominente posizione, un cielo stranamente inerte si lascia percorrere da
nuvole per non confessare assoluta presenza.
“La passeggiata del Poussin, campagna di Roma”. Placido ristagna, quasi
immobil fiume, nell’ansa brulla e arsa, ove uno scurito verde balugina in
profondi solchi. Tuttavia, nella parte superiore del cielo, s’accendono tinte
arancio e rosa, di un’età calorosa, non del tutto trascorsa.
“Vista dai giardini Farnese”. In un’albula luce, annacquata,
persino il color dell’oro appare illanguidito e sulle facciate di chiese e di
palazzi si stende tremolante, indeciso, enfio di diluente, il pigmento.
Verdeggiante massa, come mossa da fiamma che arda sotto pentola di coccio, pur bolle
nella calura.
“La vasca dell’Accademia di Francia a Roma”. L’ombra è talmente consistente
da apparire vischiosa: cortina che non può squarciarsi e attraverso cui nessun
raggio può penetrare. Eppure, quasi per contrappasso, la parte della città
illuminata in pieno da un alto sole ha agganciato il cielo come fosse uno dei
suoi impenetrabili muri: in tale dorato richiamo l’occhio sprofonda. Figure
sono rose dall’atmosfera e appaiono umbratili, manchevoli di spessore. Avendo assorbito
i colori luminescenti dell’ora che precede il crepuscolo, hanno sagome auree,
evanescenti.
“Venezia”. E’ una visione resa perenne da un colore cotto al forno,
non ancora invetriato, polveroso. L’ombra più che rinsaldare le fila, sgretola,
dissalda, sbriciola, come se tutta l’immagine fosse un friabile biscotto.
Oggetti di
natura
Panorama si dispiega con
nobile parvenza e si pone quale luogo di possibile dialogo tra uomo e natura articolando
aperti orizzonti, masse arboree che offrono frescura e invitano alla meditazione
e spicchi di sereno cielo in cui scorrono lievissimi cirri a rinsaldare un’antica
promessa. Meno ameni sono i luoghi ove volumi, arcate e rampe formano ambiente
in cui l’uomo vive. Colore digrada in ferree forme, prive di slarghi e fughe. Equivalgono
a prigione, poiché natura manca. A volte, terra è avvolta nell’oscurità e cielo
è illuminato da una luce estrema. Altre, è il minuscolo paese aggrappato alla
cresta sommitale del monte a essere contrapposto alle enormi dorsali che
attraversano la piana. L’animo vi si dilania come se avesse due distinti modi
di stare al mondo. Quando poi dal cielo filtra una grigia luce che infligge semioscurità
alle fronde e agli orli dei dirupi e dalla terra sembra che rimbalzino cupe
lamine di fredda ombra, il paesaggio, drammaticamente rivoltato, mostra le
proprie catramose budella. Ritraendo
veneta laguna, pure, ne blocca la luminosità, ne elimina ogni tremore o mobile
favilla per rendere materico lo spazio: impenetrabile vuoto ritagliato dalla
mole dei palazzi. Raramente il cielo è azzurro, spesso è bianco e corre fra
stretti filari di piante o si deposita come neutro fondo che accentui
l’orlatura delle case e i neri festoni dei cipressi.
Rosa
Pierno
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