Ci sono studiosi che hanno il dono di seguire passo dopo passo un autore e di rendere conto anche del non espresso di un testo, creando, mentre filano la propria matassa, la tessitura dei rapporti anche trasversali che l’opera studiata indica. Alla mente affiora l’immagine dell’opera come oggetto in potenza e della nota critica come atto. In atto sembra di leggere l’esplicitazione dei nessi, dei legami, il ragionamento analitico che interpola le lacune, mentre in potenza l’opera circoscrive aree, fa scintillare balenii o fa piombare nell’oscurità.
Del tessuto costruito da Gabellone, nella raccolta di testi “Fra terra e cielo, Uno sguardo sui confini”Anterem Edizioni, 2013, cn una riflessione critica di Antonio Prete, si potrebbe fare forse un radissimo sunto, segnalare alcune boe, indicare argomenti e autori trattati, ma a causa della complessità dell’orizzonte tracciato, avvisiamo subito il lettore che ci dispiace penetrare in tale compattissimo labirinto per uscirne con un solo filo. Se la collana che infilza gli autori presenti nel volume (Celan, Ungaretti, Holderlin, Pavese, Blanchot, per citarne solo alcuni) per coerentissima cernita tratta di poeti tutti aventi a che fare con la difficoltà insita nel linguaggio di esprimere l’esistenza e l’ideato, in realtà è proprio il contrario che si evince leggendo le note critiche che si susseguono nella raccolta: il lettore si ritrova a dominare ampie aree concettuali, le quali disegnano la configurazione di terre emerse dal magma dell’invisibile.
Valga come esempio per tutti la poesia di Celan, che tanto più ardentemente denuncia le costrizioni e la limitatezza linguistica, tanto più mostra che il limite in essa è sorvolato, saltato a piè pari e l’espressione giunta a completa pienezza. Dunque, non sembri immediatamente che Gabellone renda conto di tutti i significati a corollario dell’attività poetica di un autore o di un’opera, mentre più sottilmente sta mostrando il modo di tale superamento, la possibilità che i limiti vengano spostati più lontano e l’essere venga accolto assieme al pensiero con cui si manifesta. Lo studioso è infatti capace di effettuare un delicatissimo regesto delle componenti che concorrono a dare forma a un’opera, dalla situazione storica a quella psicologica, da quella culturale a quella esistenziale, in un trapasso che dall’una all’altra metodologia si fa impalpabile, ma non meno efficace, consentendogli di seguire, come in una scatola che venga aperta all’improvviso, il moto delle masse-luce, le quali non sono registrabili solo temporalmente, ma anche spazialmente. In nuce è proprio il tentativo di mostrare in quale modo la scrittura adempia al disvelamento dell’essere che si rapporta all’esistente.
Assieme ad Heidegger, Blanchot è un punto focale nel percorso riflessivo che Gabellone conduce sui vari registri linguisitici e possibilità espressive: “Se la narrazione è sempre interrogante e meditativa, la meditazione pensa e rilancia sempre la questione dello scrivere, della finzione, del come se inaugurale della scrittura e del suo rapporto con l’esperienza come gioco infondato”. La scrittura infatti insedia, seduce il pensiero sottraendogli sostegno e provocando un “continuo venire a mancare del pensiero alla propria autosufficienza”, e per questo Gabellone individua nell’ossimoro per Blanchot “il punto di annullamento di tutte le figure, il nodo ove esse si incontrano per morire”. E’ in questo modo che Blanchot mette a punto “una modalità attraverso la quale il pensiero mette se stesso fra parentesi, perdendo via via le determinazioni che permettono di definirlo come affermazione, negazione o negazione o espressione dubitativa”.
La capacità speculativa di Gabellone, oltre ad affrontare i modi del linguaggio investe anche il rapporto della parola con la pittura, e si confronta con due opere paradigmatiche e come poste agli antipodi: quella di Giorgio Morandi e di Nicolas De Staël, correttamente impostando il problema della pittura, la quale non è assimilabile a un linguaggio, ma che da esso viene apostrofata affinché elargisca, sventagliandoli, i suoi più riposti tesori, i quali sono appunto caratterizzati da una carica antilinguistica. Dopo avere posto siffatte basi, Gabellone, si serve dell’opera come di ciò che dà appunto la stura alla lingua, sorta di meccanismo propulsore che in ogni caso addita nel linguaggio solo ciò che gli compete, lasciando aperti i baratri e le incompossibilità tra referenti, oggetti e strumenti. Sarà proprio questo “sconfinamento reciproco del vedente e del visibile, del senziente e del sentito” a caratterizzare il dominio, l’incontro e lo scontro che attiva l’essere, a creare un modo d’accesso all’apparente. Lo spazio dello scambio è lo spazio “ove si opera la conversione e la trasformazione delle cose, delle apparenze, dei fenomeni del mondo”, cioè “un altro modo della presenza”.
D’altronde, esistenti già nell’assunzione dello iato tra essere ed esistenza, tre esteriorità e interiorità. Si vede bene che Pascal Gabellone ama situarsi tra contrari e opposti, sfruttando le categorie per studiarne il rovesciamento, il limite. Quand’è che avviene infatti il passaggio tra esistenza e ideale, tra artificio e naturale? Esso non è che funzione del nominare: “Ma che significa nominare? Può il poeta far sorgere nel poema, grazie all’efficacia “magica” della sua parola, le cose stesse, a partire da quel punto di oscurità inconoscibile che era per Kant la cosa in Sé? Oppure gli incombe il compito di operarne la conversione nell’invisibile delle parole, toccando così quell’intimità del mondo divenuto la sostanza stessa della parola detta?”.
Che la parola divenga “accoglienza di ciò che avviene” è quanto avviene però non solo nel testo poetico, ma anche nel testo critico quando esso sappia accogliere l’opera, essere opera.
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