lunedì 23 settembre 2013

Giorgio Agamben “Nudità” Nottetempo, 2009



La raccolta di brevi saggi di Giorgio Agamben Nudità Nottetempo, 2009, nel denunciare la forzata separazione fra diverse pratiche culturali: la poesia divisa dalla filosofia, l’ermeneutica dal profetismo, la parola salvifica dalla parola creativa, la potenza dall’impotenza, l’operosità dall’inoperosità, il tempo inattuale  della contemporaneità da quello  intempestivo, “essere cioè puntuali a un appuntamento che si può solo mancare”, individua una cesura immobilizzante che rende monca l’attività umana, indirizzandola su binari morti. Per lo studioso, un esempio di contemporaneità bloccante e monca è la moda, la quale ci restituisce un tempo privato di ogni potenzialità, raggelato nella citazione di qualunque momento del passato, pura cosa, avulsa da qualsiasi proiezione e motivazione interiore, che ci fa credere che l’origine è localizzabile in un tempo storico e viene così a privarci dell’immemoriale, del moderno, della necessità di interrogare e trasformare il tempo.

Tuttavia, tale separazione non ha ottenuto la loro definitiva scissione: si avverte, nel percorrere uno dei due poli, la mancanza dell’altro, a tratti fantasmatica, in ogni caso capace di scavare un vuoto, di fare spazio, di reclamare l’altro in quanto componente complementare e necessaria. Tant’è che il testo su Kafka verte sull’importanza del rendere “inoperosi i limiti e i confini che separano (…) l’alto e il basso, il divino e l’umano, il puro e l’impuro”. Poiché è nello scarto, che il varco tra cose separate prodigiosamente si apre ed è possibile esperire la storia e la vita. Ecco, dunque, che questi brevi saggi si palesano come un elogio del moderno e della sua capacità di tenere insieme i lembi di cose diverse, la loro reciproca innervatura, il comune scheletro, poiché che ogni cosa si dà contemporaneamente con il suo opposto: “è soltanto la bruciante consapevolezza di ciò che non possiamo essere a garantire la verità di ciò che siamo”. 

Il corpo s’inscrive in questo dialogo fra opposti in virtù del fatto che: “Il desiderio di essere riconosciuto dall’altro è inseparabile dall’essere umano”. L’uomo si costituisce come persona solo in relazione al riconoscimento dell’altro. Partendo dal fatto che persona in origine significa maschera, Agamben sottolinea che la persona morale si afferma tramite un’adesione e uno scarto alla maschera sociale e che soltanto una separazione fittizia ha separato i dati biologici e la persona, dando luogo alla nuda vita. Ne consegue che l’identità costruita esclusivamente sui dati biologici “è un’identità senza persona”.

Lo studioso, inoltre, indaga i rapporti tra nudità ed eredità teologica. Quest’ultima ha ridato all’uomo la sua veste, la quale ne ha rivelato il male, ma ciò rinforza per l’appunto la separazione, fino a far diventare la natura come “definita dalla non-natura (la grazia) che ha perduto, così come la nudità è definita dalla non-nudità (la veste) di cui è stata spogliata”. Anche Benjamin si fa portavoce della tesi teologica  secondo cui “nella bellezza, velo e velato, l’involucro e il suo oggetto sono legati da un rapporto necessario (…), segreto”. La  nudità non sarebbe che “ciò che resta quando si toglie il velo alla bellezza”.
Anche se, la nudità  viene interpretata da Agamben come nulla, come “pura visibilità e presenza”, come ciò che non si può interpretare: “si potrebbe definire la nudità come l’involucro nel punto in cui diventa chiaro che non è possibile venirne in chiaro”, sarebbe proprio questa “esibizione dell’apparenza oltre ogni mistero e ogni significato, a disinnescare il dispositivo teologico”, lasciando vedere al di là della grazia e della natura corrotta, “il semplice, inapparente corpo umano”  liberando, così, con un colpo solo, natura e grazia, nudità e veste, col contraccolpo della loro inevitabile saldatura dialogica.

Rosa Pierno

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