Ricercare nuove frontiere per il pensiero e dare vita a forme espressive adeguate a parlarne: ecco, in una frase, il programma della seconda serie di “Anterem” (1978-83). È il periodo “sperimentale” della rivista, durante il quale viene svolto un intenso lavoro sulla decostruzione della parola (prestando ascolto a Derrida, ovviamente, ma anche a Mallarmé), sull’emergenza dell’antipensiero (chiamando in causa Nietzsche), sulla connessione tra scrittura e caducità (in stretta relazione con Kafka). Il nome della serie è, esplicitamente, Forme dell’infrazione.
La rivista si dà con questa serie due occhi esterni e uno interno; un piede nel firmamento e uno nel sottosuolo. Fa segno, con Sofocle e Hölderlin, allo zero, quale effetto di una cancellazione che lo precede. Va ricordata questa frase di Sofocle, tratta dal suo Edipo re: «Ah generazione dei mortali, / uguale a zero [isa kai to meden] / valuto la vostra vita». Sono parole che torneranno nel Significato delle tragedie di Hölderlin: «... dal momento che il segno, in se stesso privo di significato, viene posto = 0, anche l’originario, ovvero il fondo nascosto di ogni natura, può allora farsi presente. Se la natura propriamente si fa presente nella sua più debole modalità, così quando essa si fa presente nella sua più forte modalità, il segno è = 0».
L’inesplicabile è già la nostra instabile dimora. Dietro di sé non ha il verbum divino, ma l’ingens sylva dello stato animale arcaico. Lo ricorda Gabriella Drudi: «Noi non siamo soli al mondo – e gli animali che ci portiamo dentro possono sempre divorarci o leccarci la mano».
A stretto contatto con le nostre ombre interiori, la parola poetica si assume il compito di stabilire una connessione possibile tra riflessione ed esperienza. Si impone, insomma, di “dire la vita”, tema che sarà compiutamente ripreso con il n. 76 della rivista, nel 2008. Ma già con la seconda serie è radicata la consapevolezza che per farlo è necessario uno sguardo micrologico, come impone Adorno in una riflessione ripresa in più occasioni da Rella. Scrive Adorno: «Lo sguardo micrologico spezza la scorza di ciò che è irrimediabilmente individuato in base al concetto superiore che lo assume in sé e fa saltare la sua identità, l’inganno che esso sia soltanto un esemplare. Questo pensiero è solidale con la metafisica nell’attimo della sua caduta».
Ecco perché fondamentale diventa la funzione alla quale sono da sempre chiamati i poeti: guarire le parole.
Noi pronunciamo parole riflesse. Parliamo parole seconde, derivate, che non creano ma interpretano parole che derivano da altre parole ancora: le parole prime pronunciate dai nomothetes, i sapienti antichi che con la nominazione dei luoghi e delle cose crearono il mutevole orizzonte del mondo.
La lingua delle origini è tramontata e con essa la sua capacità di creare. Ma questa lontananza non può impedire di pronunciare una parola che – lungi dal rispecchiare semplicemente eventi e cose – faccia segno all’unità preriflessiva e preconcettuale che ha preceduto il pensiero cosciente e razionale.
Ecco perché va lasciato riaffiorare nelle parole riflesse ciò che resta in esse di non detto, consentendo così l’emergere di un dire che ci preesiste: quella «vera narratio» vichiana, dove fantasia e conoscenza sono una cosa sola; consentendo così l’emergere nella frase poetica non solo di un’espressione artistica, ma anche di vere e proprie forme di sopravvivenza.
Il richiamo originario ci conduce – grazie alle forme dell’infrazione – nel regno del caos, dove il cosmo è disordinato e la forza del mysterium si muove liberamente tra elementi demonici; dove si fa evidente la consapevolezza del nostro destino di esseri senza dimora. Qui scopriamo che quella prima età non è caratterizzata solo da tenebre e terrore, ma anche da «quella purissima fanciullezza in cui verità e menzogna, realtà e sogno non si distinguono l’uno dall’altro», come registra Blumenberg. E qui – in questa duplicità – c’è già il seme di una delle serie successive della rivista.
Flavio Ermini
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