Che il mondo della critica artistica venga indagato da un critico letterario non è accadimento raro, ma in “Ombre e figure. Longhi, Arcangeli e la critica d’arte” Il Mulino, 2010, risulta come elevato all’ennesima potenza il rapporto tra critica artistica e critica letteraria, in quanto Raimondi, isolando l’attività critica di Roberto Longhi, e dei critici che ne hanno seguito la lezione, vi lavora su una critica di frontiera, in cui ciò che conta non sono le metodologie, le classificazioni, le scuole, la storiografia critica, ma un particolare rapporto che viene istituito con le opere d’arte e che corre parallelo con l’opera letteraria vera e propria.
Ma nel libro di Ezio Raimondi c’è molto in più, e non solo per i personali rapporti di amicizia che lo legano ai critici che costituiscono l’oggetto dell’analisi. Colpisce, infatti, il profondo amore, la partecipazione con cui egli cerca di accostarsi e di comprendere il mondo artistico, i problemi non solo critici che pone, ma quelli psicologici e morali. Il critico, dunque, visto come persona, attraverso le relazioni che istituisce con gli altri e soprattutto con quelli che egli riconosce come suoi maestri, anche in senso negativo, come esempi di posizioni critiche da non seguire. Ad esempio, seguendo il percorso della vicenda di Francesco Arcangeli, Raimondi individua le modalità del rapporto con Longhi, seguendone passo passo sia i prestiti, sia le distanze maturate, in una mai passiva sudditanza.
Ma certamente è alla linea longhiana che Raimondi riserva il suo interesse predominante: indubbiamente interrogare Longhi “significa misurarsi con uno scrittore, convinto dell’irriducibile specificità dei diversi linguaggi artistici”, dove le “equivalenze verbali”, le “trascritture di opere d’arte” non intendono sostituirsi all’opera d’arte, ma cercano di coglierle nella loro singolarità percettiva, senza mai trasferirle su linee generali. E siano le medesime parole del Longhi ad affermarlo: “nella ripresa parlata del fatto più profondo e in apparenza meno motivabile dell’uomo, com’è il produrre artistico, composto non già di azioni e reazioni palmari, ma di sempre diverse “condizioni libere”, di occasioni imprevedibili e velate, non è alla fine pretendere più che a un verosimiglianza non contraddicevole, mai ad una certezza spietata e documentata che, del resto, è dubbio se abbia veramente luogo in alcuna storia e persino in quella della scienza”.
Di conseguenza, puntualizza, Raimondi, “la relazione diretta col quadro diventa il vero momento interpretativo, la circostanza in cui l’”illuminazione” dell’opera si “storicizza” attraverso un’immediatezza piena di ragioni culturali. Raimondi pone in risalto il modo in cui Longhi riporta l’attenzione sui valori formali dell’opera, “espressività della forma per sé”, e contemporaneamente sul suo non cercare nel quadro ideali, letteratura, interpretazioni già stratificate, poiché per Longhi, appunto, “il giudizio estetico si differenzia secondo i diversi materiali e le diverse forme artistiche”. E in questo è dispiegata anche la distanza dalla lettura iconologica dell’opera d’arte: “Le forme figurative sono altra cosa da quelle verbali e letterarie e dunque richiedono un proprio codice interpretativo”. O ancora riportando le parole di Longhi: la critica deve proporsi “come valutazione di valori puramente formali e come narrazione storica di tali valori”.
Dopo avere con grandissima chiarezza e padronanza esposto la lezione traibile dal Longhi, Raimondi analizza il lavoro dei “primi scolari”: Arcangeli, Graziani, Gnudi seguendone il percorso con un’attenzione certosina e sottilissima fin nelle più riposte pieghe, per sviscerare quanto della lezione longhiana, messa alla prova da nuove contingenze storiche e dai nuovi apporti agli studi sulla materia, abbia resistito o sia stato riposto per la diversa indole o le nuove necessità critiche degli studiosi che gli sono succeduti.
Rosa Pierno
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