giovedì 5 aprile 2012

Claude Monet “Mon histoire. Pensieri e testimonianze” Abscondita, 2009

Emerge dalle pagine di Claude Monet “Mon histoire. Pensieri e testimonianze” Abscondita, 2009, l’ossessione, potente e inesauribile, che ha attanagliato la sua vita: rendere le cose non come sarebbero nella loro essenza o fissità, ma immerse nel divenire, mai separabili dalle condizioni attraverso cui ci appaiono: gli effetti metereologici, le condizioni della luce, la presenza della riflessione (pioggia o specchio d’acqua) e tutta la sequela di velature di cui l’atmosfera sa ammantare gli elementi in essa dislocati (dalla nebbia all’aria limpida). In una sola espressione, indicata dalle parole stesse di Monet: “Il motivo è per me insignificante; quel che voglio riprodurre è quanto c’è tra il motivo e me”. Ove, però, non si fa alcun riferimento alla soggettività, se non quella rappresentata dall’abnegazione all’attività pittorica che fa scegliere il colore in base all’etichetta o alla caparbietà di restare sotto le peggiori condizioni climatiche (persino semisepolto dalla neve) al fine di catturare l’impalpabile differenza luminosa, la trasformazione della materia, a causa degli attacchi della luce, colta nello stadio della sua dissolvenza.  

Monet cerca di divenire sensibilissimo strumento di ricezione e restituzione degli aspetti variabilissimi e temporanei della realtà, poiché le sue apparenze sono così mutevolmente veloci da richiedere un occhio espertissimo e una mano rapidissima. La capacità di isolare e individuare - nella sequela in cui si può suddividere il flusso temporale scandito dalle condizioni atmosferiche - alcune immagini, quasi fossero vere e proprie sezioni, pari a quelle che si possono ottenere dal taglio di una pietra che ne sveli le altrimenti impensate venature interne, richiede l’esercizio di una vita intera, l’allenamento ininterrotto, lo sforzo al limite delle umane possibilità.

Anche l’implacabilità con se stesso è un elemento che caratterizza l’artista francese, poiché niente sarebbe più facile per colui che voglia realizzare una tale opera, la quale cattura la sorprendente mutevolezza delle cose, che chiedere comprensione per la maggiore difficoltà di restituzione e il suo incerto esito. Monet accenna allo sforzo sovraumano “per arrivare a rendere quel che cerca: ”l’istantaneità”, soprattutto l’involucro, la stessa luce sparsa su tutto”  e al contempo esprime “disgusto delle cose facili che vengono di getto”. E, parlando delle sue tele: “ne ho appena distrutte almeno trenta, e con mia grande soddisfazione”.

Il volume, corredato da numerose foto dell’artista all’aperto e nel suo studio, è arricchito da alcuni testi critici coevi che testimoniano dell’iniziale difficile accoglienza che i suoi quadri hanno ricevuto. Difficoltà che accomunavano tutte le opere degli impressionisti a cui non si perdonava la pittura en plein air, poiché erano ancora in vigore le regole accademiche. Ma come lo stesso Monet stigmatizza: “Se le mie cattedrali, le mie Londra e altre tele sono state fatte dal vero oppure no non riguarda nessuno e non ha alcuna importanza. Conosco tanti pittori che dipingono dal vero e fanno solo cose orribili. Il risultato è tutto”.   I testi di Zola, Proust, Mirbeau, De Maupassant, de Goncourt ci comunicano, dunque, come la dissoluzione dell’oggetto, quale si configura sulle tele di Monet  (si pensi alle vedute di Venezia, alle cattedrali, ai covoni di paglia) insieme alla sua volontà di lavorare sugli effetti dell’atmosfera, sia stato recepito come atto di assoluta novità, e paradigmatico, del tutto immediatamente, almeno, dagli scrittori più rappresentativi dell’epoca.

                                                                                  Rosa Pierno

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