domenica 23 ottobre 2011

Tiziano Salari su “La mela d’oro” di Susanna Mati, Moretti & Vitali, 2009



La mela d’oro  è tutto un’interrogazione sulle grandi parole della mitologia greca, filtrate da millenni di filosofia e di disincanto, ma che si riaffacciano qui inquietanti a chiederci conto delle nostre vite, del nostro destino. ”Quando si comincia a comprendere quale sia il proprio destino, non si può che disperare-perché dietro la sua parzialità (voluta, subita: è uguale) si intravede la forma della Moira”. E la Moira è agganciata direttamente ad Ananke.
L’ANANKE domina inesorabile.. Allora, ci dice la Mati, “obbedire al proprio destino, trasformandolo in fabula, è ricreare  la necessità e il caso come liberi e voluti: rendendoli un  hypermoron”. L’eterno ritorno di Nietzsche, del mordere e sputare la testa del serpente che ti avvolge. Può l’amor fati rappresentare questa salvezza? Su questa scommessa s’impernia la ricerca dolorosa, gioiosa, appassionata di Susanna Mati nelle pieghe del mito, inseguendo la traccia  del pomo d’oro,”da sempre frutto desiderato e problematico, ovverosia critico, o proibito” di un mito che “fruttifica all’infinito”. L’Occidente non fa che inseguire da sempre  quel pomo, e lo insegue tuttora, lungo la sua interminabile agonia. L’Occidente, terra del tramonto. Esperia.  Esperia nel senso di Italia, e soprattutto di Europa, “la alata, l’insofferente, la geniale, l’esaurita”, dove cresce il pericolo, e da cui, citando Hölderlin, potrebbe crescere ciò che salva. E ciò che salva potrebbero essere i frutti promessi da Nietzsche nel suo Zarathustra.  Frutti che possono maturare solo nel tramonto, in Esperia, nella terra in cui “gli dei sono frutti morti”, e questa morte corrisponde al nostro tentativo di “sottrarci alla tragedia”?  Eppure la vita dell’uomo è una ripetizione eterna della stessa tragedia. “Eppure l’uomo patisce allo stesso modo di un tempo la propria caducità; egli non ha risarcito il mancante, il vuoto prodotto lo perseguita, ancora partecipa del medesimo grande patema” (p.20). Niente ha sostituito gli dei morti, se non un grande vuoto e la disperazione. In Hälfte des Lebens  (Metà della vita), Hölderlin ci porta, con un’antitesi tra estate e inverno, a sentire il brivido della scissione  dell’”uno differente in se stesso”, così come sono le facce contrapposte della natura, tra la pienezza e vitalità estiva e il muto rigore del gelo invernale. Da una parte vegetazione rigogliosa di fiori e di frutta, estatica immobilità di un lago, in cui tuffano il capo i cigni nella  sacra sobrietà dell’acqua. Da una parte la pienezza dell’estate, dall’altra il gelo dell’inverno, in cui nel vento stridono le banderuole. Susanna Mati cita il Canto del destino di Iperione: dove avviene la stessa frattura, ma tra mortali e immortali, uomini e dei, tuttavia accomunati dallo stesso logos di Ananke, dallo stesso destino. “Quindi se i mortali dolenti precipitano pesantemente da un’ora a un’altra, dileguando verso un cieco ignoto, tuttavia come misteriosa genealogia, in nascosta solidarietà, appartengono con gli dei alla stessa stirpe” (p.27). E sono morti anch’essi, lasciandoci tra mura fredde e afone dove , im Winde/Klirren die Fahnen..
“Tutte le nostre faccende si legano qui, a noi, venuti tardi e che veniamo presto:usciamo dal fondo e dal tutto e questa uscita si chiama storia, Occidente e mondo, tecnica” (Jean-Luc Nancy). ”Noi ultimi stiamo alla fine, viviamo nell’estremo momento, siamo posti alla frontiera dell’accadere, nell’attimo più giovane”. Sono le prime righe de La mela d’oro di Susanna Mati, che ha il sottotitolo di Mito e destino. Ma che rapporto può sussistere tra noi che “sorgiamo, estranei, inquietanti, da un’apertura dappertutto spalancata che rinvia al non luogo ogni coesione di fondo e di totalità”(Nancy), e “quel racconto tramato di dei, di tragedie, di parole[…]ovvero di verba, di fabulae divine: di estroflessione di luce” (Mati) del mito? .
L’occidente deve accettare fino in fondo il proprio destino, che è ”volere il proprio tramonto, dunque, volersi tramontare” (p.44). La via ci è stata indicata da Hölderlin e da Nietzsche. Il destino che, da un punto di vista esistenziale “è sempre funesto”, il “brutto poter che, ascoso,  a comun danno impera” del Leopardi di A se stesso, può essere visto sotto una diversa luce? Possiamo trasformare in fabula/mithos  l’irrequietudine delle nostre vite? Volere l’eterno ritorno delle vite che abbiamo ricevuto? La Mati ci porta a varcare questo abisso e a nutrire questa speranza.

                                                                                                                 Tiziano Salari

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