sabato 1 ottobre 2011

Siegfried Giedion “Breviario di Architettura” Bollati Boringhieri, 2008

Riveste un doppio interesse rileggere dopo 50 anni un libro che è stato al centro di numerosi dibattiti dell’epoca: “Breviario di Architettura” di Siegfried Giedion (uscito per la prima volta in Italia nel 1961 e tradotto in moltissime lingue) sia per il punto di vista storico da cui osservare le critiche messe a punto da Giedion sia per verificarne l’efficacia.

Individuiamo, innanzitutto,  il recupero del valore della storia, la quale deve essere considerata dinamica e non statica, poiché sempre dipende dallo sguardo e dalle risposte che si cercano nel passato. D’altronde, non è che l’eco della lezione di Burckhardt: l’arte va studiata insieme al contesto sociale, storico, culturale in cui le sue forme nascono e si trasformano. La creazione artistica è un processo immerso nella storia  e Giedion non analizza mai nessuna forma o progetto senza menzionare anche le forze sociali (committenti, pubblico, interesse economico, esigenza estetica) che concorrono alla sua nascita e sussistenza. Ma soprattutto non è possibile leggere il libro di Giedion senza avere presente come sfondo la “Scuola di Francoforte”, in cui sono stati messi a fuoco i meccanismi tra società di massa, politica e cultura. In questo senso, Giedion risulta un banalizzatore di quelle dottrine, ma quello che stiamo cercando è il rapporto che egli vuole istituire tra società di massa e architettura, come  vuole cioè definire la funzione dell’architettura in questo quadro. 

E in questo senso è interessante notare come Siegfried Giedion faccia riferimento alla necessità  di riferirsi a un essere umano che dimostri di avere integrato in maniera armoniosa la sua razionalità e il suo sentimento.  L’essenziale per lui è evitare che il razionalismo sia visto come elemento predominante della progettazione, pertanto invoca il sentimento come componente necessaria per una rivitalizzazione della capacità di giudizio. Anche qui il riferimento obbligato è al Nietzsche che critica la visione di Socrate, che la realtà sia governata da ragione, da cui nascono la scienza e la morale razionale.  Ma al solo sentimento, Giedion imputa  le scelte arretrate e scontate per cui c’è nel gusto artistico dei decisori una “frattura tra un pensiero razionale altamente sviluppato e una struttura emotiva arretrata”. Anche se a noi sorge un dubbio sul fatto che la classe politica vi sia presentata come immobilizzata solo da una mancanza di competenza, e non anche da una precisa volontà di favorire componenti diverse da quelle estetiche e culturali.

Se il pubblico non ha un grado di cultura sufficiente per dirimere con chiarezza le questioni qualitative dell’arte, il ruolo del critico assume, di conseguenza, enorme importanza poiché riconosce per primo e indica agli altri in che cosa risiede il valore. Il ruolo della critica è una diretta filiazione della lezione illuminista, che  Kant ha raccolto e la scuola di Francoforte ha accentuato in una specifica direzione, ma che qui è relegata solo a specialisti e non inerisce al singolo, nemmeno come obiettivo futuribile tramite adeguata formazione (com’è invece in Adorno).

Uno dei temi maggiormente perorati dal testo di Giedion è la necessità di dare una nuova spinta alla funzione del monumento. Esso ha un ruolo centrale nelle sue riflessioni non solo perché la sua mancata presenza nelle città attuali è indice di una crisi dei valori collettivi in cui appunto una comunità si riconosce, ma anche perché il monumento si situa come una cerniera tra scala architettonica e scala urbanistica, entrambe saldando in un tessuto connettivo. Egli propugna l’utilizzo di materiali colorati e in movimento, nuovi e tradizionali ed elementi naturali (alberi, acqua)  in un avvicinamento alla natura: “A queste condizioni l’architettura monumentale  tornerebbe ai suoi fini originari e ritroverebbe il suo contenuto lirico. Architetti e urbanisti potrebbero così toccare quel grado di energia e di libertà creative, che si è affermato nel campo della pittura, della scultura, della musica e della poesia”. Non si comprende come mai Giedion espliciti il suo credo nella preminenza delle altre arti rispetto all’architettura, come se quest’ultima non facesse che ripercorrerne le orme: “dobbiamo sottolineare che nell’attuale momento dell’architettura non può esistere un artista veramente creatore, che non sia passato attraverso l’esperienza dell’arte moderna” . Un attacco come questo è difficilmente comprensibile in un’epoca che vede una straordinaria rinascita dell’architettura attraverso le grandissime personalità di Mies Van der Rohe, Walter Gropius, Le Corbusier, Frank Lloyd Wright, Alvar Aalto, ma l’elenco sarebbe lunghissimo.

Abbiamo ripreso dallo scaffale questo impolverato libro per saggiare quanto delle implicazioni filosofiche di cui era impregnato siano state fatte interagire con la concreta pratica architettonica e quanto siano state effettivamente prese in considerazione le reali forze in campo con cui ogni pratica progettuale si deve confrontare, e il risultato è apparso insufficiente poiché filosofia e architettura ci sono sembrate giustapposte. Se, dunque, il libro di  Siegfried Giedion, a nostro avviso, si dimostra inefficace per un pubblico di specialisti, non ha però nemmeno assolto al compito di formare un pubblico competente.

                                                                                                                 Rosa Pierno

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