Dal 2 marzo al 23 marzo 2013 presso la galleria La Nube di Oort in via Principe Eugenio 60, Roma
Che cosa voglia dire rendere visibile l’invisibile lo vediamo negli avvincenti, coinvolgenti, notevolissimi disegni di Renée Lavaillante, grazie alla mostra realizzata da Cristian Stanescu nella sua galleria La nube di Oort, il quale ha voluto per la terza volta in Italia l’artista quebecchese. I disegni mostrano tre direzioni di ricerca: il primo gruppo intitolato Le crayon chercheur riguarda alcuni fogli di carta koreana in cui sono intrappolati pezzi di foglie, inserzioni vegetali, formanti rugosità e rilievi sulla superficie, a partire dai quali l’artista, chiudendo gli occhi e poggiando delicatamente la matita, con l’aiuto delle dita, traccia delle linee tra i rilievi, andando a delineare la mappa dei possibili percorsi. La lettura, non di un alfabeto Braille, ma di un oggetto, delle sue caratteristiche – in questo caso delle vie tracciate dalla matita, mentre in altri disegni l’artista ha utilizzato le caratteristiche materiche dello strumento (ad esempio, la matita collegata all’estremità di un giunco flessuoso) – che vengono replicate come in negativo dalla punta di grafite, va a definire una mappa che segna limiti e deviazioni, che si adatta a ciò che trova, che giunge a circuire tutti i rilievi intercettati e individua le vie piane, anche molto tortuose, fra essi. Se guardare le opere d’arte conducesse necessariamente a rintracciare un’analogia, andremmo subito a intercettare quella relativa alla visione zen come ricerca e adattamento, come soluzione e alternativa. Dove centrale è il ricorso alle capacità interiori, mai disgiunte dalla percezione del reale.
Inoltre, da questa tramatura di linee che corrono in alcune zone del foglio emerge un’esperienza non slegata dalla materia, ma che, anzi, muove alla ricerca della sua persistenza. L’io, imbattendosi nell’ostacolo, ingegnandosi nel superarlo, trova contemporaneamente i suoi limiti e saggia la sua resistenza, le sue capacità interiori. In una sola parola: accede alla conoscenza. Dunque, è chiaro che per Renée Lavaillante il disegno è un’esperienza conoscitiva, prima che creatrice di realtà e di visioni: il disegno come linea che traccia, definisce, limita, costruisce e testimonia, non disgiunto, perciò, dalla sfera concettuale.
Il secondo gruppo di disegni, denominati Sinopia, dal nome che si attribuiva ai disegni preparatori per gli affreschi, affronta un diverso aspetto del problema relativo alla rappresentazione dei concetti, i quali se operano sempre un’astrazione rispetto al reale, non necessariamente devono perdere la referenza con esso, tant’è che in arte non può disgiungersi la materia dall’ideazione. Il rapporto tra visibile e invisibile qui viene costruito attraverso la realizzazione di un cerchio con una pasta di gesso trasparente, che resta per questo invisibile, sulla carta. Poi, con l’aiuto di linee serrate e parallele, l’artista cerca di renderne visibile la presenza, che si rivela per gradi con la progressione delle linee, grazie alla rugosità del gesso che viene intercettato dal passaggio dell’inchiostro e che diviene figura sul foglio. Le linee, alcune sottili, alcune più grosse, rendono in tal modo visibile non soltanto una cosa esistente, avente uno spessore e una materia, ma soggiacente, nascosta, impostando così il problema del rapporto tra visibile e invisibile come qualcosa ancora appartenente al piano dell’immanenza, che insiste, cioè, sul piano della sostanza e del particolare. Il cerchio, inoltre, appare come l’immagine più polivalente e aperta, contemporaneamente non figurativa e allusiva, legata in ogni caso a forme reali. Si noti anche che, in alcuni fogli, le linee sono chiuse due a due, specificando la costante attenzione estetica, la soglia interpretativa del disegno, il suo autonomo valore. Invero, il fruitore avverte fortemente che la penna sembra tracciare sotto completa dettatura mentale e quello che si vede apparire sul foglio sembra la rappresentazione di ciò che risiede esclusivamente nella mente. Questi disegni, dunque, valgono come la mappa d’una figura che abbiamo dentro, fanno apparire ciò che è riposto nelle nostre cellule, danno una rappresentazione del mentale, tout court, sono alfine pura apparizione!
E con quest’ultima parola, quasi fosse una chiave di volta, ci avviciniamo al grande disegno che occupa un’intera parete, e che si differenzia da quelli appartenenti alla due serie che abbiamo presentato per una particolare straordinaria misura, forse di un possibile sfondamento nel trascendentale, poiché in riferimento a qualcosa che è dato ‘vedere’ per assenza. Questo disegno, che sembra un probabile passaggio per esprimere ciò per cui non abbiamo concetti, è costruito con matita nera tessente un tratteggio incrociato atto a determinare una superficie completamente nera e spessa sui bordi dell’immagine da cui nessuna luce può filtrare, ma che, gradatamente avvicinandosi al centro del disegno, si sfarina in alone, lasciando presto spazio al solo colore bianco della parete, alla sola luminosità. Ma abbagliante. Questo straordinario effetto ci consegna letteralmente una rivelazione: l’ottenersi percettivo di un entità per cui non abbiamo parole, ma che sappiamo essere pura visione!
Rosa Pierno
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