In mostra a Ravenna dal 24 novembre al 13 gennaio 2013
Una delle interrogazioni
che ricorrono di fronte alla pittura di Ettore Frani, dentro al cuore della sua
rivelazione, è se l'opera sia, nella sua essenza, una manifestazione simbolica
o, al contrario, una pura concentrazione ermetica. Se, cioè, la sua
proliferazione immaginale agisca come un rinvio a questioni che affondano nel
mito secondo costellazioni già sperimentate o, per converso, rappresenti una
prova colloquiale, un brano intrinseco al mistero dell'essere, alla sua
esperienza cogente, vivissima, insondabile.
Il motivo per cui la
prima ipotesi si mostra da subito come incongrua o, con ogni evidenza,
insufficiente, è legato al fatto che nelle opere di un'artista come Frani, il più
antico tra i moderni, si concentra tutta la potenza di una visione parziale e
incondizionata. Un lacerto o brano rivelato sin dal suo nascondimento, a
partire dalla negazione della sintassi, del procedere per premesse e
conseguenze. Un metodo ellittico, il suo, capace di proiettare dentro
l'ambulacro di un edificio immaginale una luce che permea i soggetti, li illumina
e ne scaturisce intimamente. Un quadro-camera oscura dove la visione si compone
come parte di un tutto. Ricettacolo di vita geologica, risultato di movimenti
nello spazio e nel tempo in vista di un segreto sub-naturale all'incrocio tra
mistero ed esperienza, cornice di irrealtà capace di renderlo immortale.
E l'assunto, allora, è
questo: vive, in ogni opera di Ettore Frani, un'intuizione e non una profezia.
La sua arte non parla del mistero o per il mistero, ma sgorga direttamente dall'intuizione
della sua esperienza. C'è, in queste opere, tutte, dalla prima fase tra specchio e velo, alla seconda dei panneggi,
sprofondata oltre il nascondimento, alle ultime di Terra, latte, luce e di Attrazione
celeste, un furore e un movente profondo che conduce all'esperienza del mistero
e delle sue intuizioni. Tanto che lo spazio in cui si apre per soddisfarne
l'attesa non è una struttura vuota o, ancor peggio, astratta ma, semmai,
l'estensione metafisica della sua intuizione, la sua dilatazione in profondità,
regione interiore in cui viene calata l'esperienza dell'inesprimibile.
Materia di questa estensione
è, fondamentalmente, la luce. C'è infatti una morbidezza, una ariosità, una
fusione impalpabile di ombre radiose proprio lì dove il nero è pregno di luce.
E l'emozionalità dell'opera non si risolve in un gesto definito, in un moto esatto;
semmai nell'immagine dei moventi,
delle spinte spirituali profonde.
Per questo siamo ancora
all'interno della caverna dell'essere, sebbene in attesa e sulla soglia. Si
tratta di una luce senza progetto, è ovvio, tutta interna allo sviluppo
dell'esecuzione. Come se la velatura vincesse sulla prospettiva. Ma è una luce
fattasi aria, densità luministica, atmosfera e corpo, intransigenza di forme. Perché
spazio, tempo e luce raggiungano uno stadio di fusione paragonabile a un
assoluto relativo, punto d'arrivo di un percorso artistico ed esperienziale
insito in ogni opera.
La prospettiva, in
questo contesto, non si risolve in una geometria delle linee ma, semmai, nel
prodotto dei rapporti di luce dati dalle sue velature. Lo testimoniano gli
orizzonti alti, mai concepiti come panoramiche distese, prospettiche. E che
rappresentano una materia nobile, vicina alla sostanza interiore dello spazio e
della luce. Formando un piano che non ha spessore di superficie e non si oppone
alla concentrazione della luce, ma la trattiene solo quanto basta per
restituirle una sottile frequenza di vibrazione. Uno spazio profondo e aperto
dentro la caverna del sub-naturale in cui si è immersi senza riparo dentro
l'esperienza della visione.
L'antitesi di profondità
e superficie non si dà come tale, ma come proporzione di valori non oppositivi.
La luce è spazio senza intenzioni. Mentre le figure, testimoni di una visione
annunciata e in fieri, capaci di
imprigionarne le risonanze, ne sono attraversate, riempite; materia opaca,
energia accumulata e compressa che si disperde nel gioco di superficie e
profondità.
È la dimensione
dell'essere a rappresentarne l'essenza fondamentale; l'ombra un piano inclinato
di irradiazione. Figure illuminate dall'interno che danno il senso della loro verità,
della loro essenza. E che, in questo spazio e in questa luce dalla medesima
natura profonda, si comportano allo stesso modo. Figure che non occupano lo
spazio, che non lo colonizzano ma, semmai, vi sbocciano come escrescenze colme
di estensione. E il cui motore è una luce più piena, più insondabile. Così che
il loro mistero chiama a farsi sperimentare nelle forme stesse dell'essere.
Il colore, altresì, o l'assenza del colore, si costituisce nelle opere di Frani come una media interiore tra due tonalità, tra due timbri. Vi si gioca la proliferazione delle intensità luminose atte a descriverne i fenomeni per una rivelazione di unità assoluta, immutabile.
Il tempo si fa spazio, fino
ad escludere ogni successione. Le zone d'ombra vere e proprie macchie d'aria,
lo spazio aperto un fondale immerso e, persino, sprofondato nell'opera, caverna
dell'essere. Opera che a volte si pone sulla soglia, sul limite estremo oltre
il quale rischia la negazione di se stessa. Linea oltre la quale la luce si
spiegherebbe come elemento puramente naturale. Quando è invece in questa
caverna dell'essere, in questo ventre metafisico, che le due tonalità sprigionano
il loro senso più profondo. Universo senza colore, dove persino le sfumature
più sottili, estensione delle verità intrinseche all'essere, incarnano
un'origine fervida, cupa, inquieta.
Ma è proprio nel tempo e
nello spazio che prende corpo il senso musicale dell'opera di Frani, a partire
dal silenzio e dal tono interiore. Un rumore
di preghiera e di trionfo, un'armonia condotta sulla traccia della caduta e
dell'elevazione. Esattamente ciò che accade in Terra Latte Luce III, dove a una predella assorta nel silenzio e
nella lontananza, si impone il fragore della resurrezione, cateratta d'acqua
risorgente. E, con impatto visivo ancora più assordante, l'Attrazione celeste, vero paradigma dell'esperienza artistica
dell'ultimo Frani, punto d'arrivo tra i più riusciti nella sintesi tra sguardo,
luce e suono.
Tutto ciò secondo due direttrici
essenziali, nel tempo e nello spazio. Perché è proprio questo movimento
impalpabile a tradurre musicalmente il discorso pittorico di Ettore Frani in
ritmo e in altezza. La pioggia come caduta ed elevazione, dai toni gravi del
basso a quelli acutissimi dell'alto, per arrivare al ciglio di tenebra e luce,
nota caparbia e lunga sotto il contrappunto della stellata, vero e proprio sciame
sonoro e cristallino. Mentre il ritmo rilancia da profondità aeree, dal vicino al
lontano perfettamente intersecantesi nell'alto e nel basso. Tanto che ogni
particolare risuona nell'alternarsi di prossimità e distanza.
Così La fortezza,
montagne imperiose risorgenti dalle tenebre della coscienza, tra nebbie
risalenti: la grande Torre del Pakistan. E al suo fianco le due Comunicande, donne dopo il bagliore. La prima svuotata, adusta, folgorata;
l'altra spirante verso l'alto.
E ancora Sorgente: tela di bianco, bagnata, unta dal
basso, nel centro. Corpo su coronamento, o predella nera, con acqua che cade e
risorge; mentre nell'alto precipita una luce irreale. Emanata dall'acqua
stessa. Radiosa.
Quindi Palpebre, quadri dipinti ad occhi
chiusi. Ombre umane nel bianco. Sul retro, chiusi alla visione, nascosti allo
sguardo, due cieli stellati, visti con gli occhi della mente, secondo un vero e
proprio rovesciamento della prospettiva. Cieli senza occhi, da cigli erbosi, da
ciglia interiori. Che sprofondano, catapultano nelle trincee dell'essere
durante la notte, prima del lancio dei traccianti, prima dell'incursione, della
raffica, dell'abbattimento. Ascensione di luce verso l'alto. Stellata fittissima.
Moltitudine squillante, argentina.
Per arrivare, infine, all'atanor, origine ultima, principio e
fine, quadro circolare. Il barattolo
del pittore visto dall'alto, come vaso alchemico, colore nero stemperato in
acqua-resina, in gomma-ragia, vero luogo, per ogni artista, di tutti i
nascondimenti, di tutte le rivelazioni.
Leonardo Bonetti
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