C’è un respiro di mare nel libro di
Bruno Galluccio, Verticali, Einaudi,
2009, un respiro che va e che viene, che porta dappresso e risospinge lontano
ciò che è trascorso, ma che non è ancora finito, e ciò che ha avuto termine e
non se ne è andato definitivamente. Così il discorso poetico si rifrange
continuamente su una battigia pullulante di immagini e ricordi, di frasi che
ancora riverberano fra lustri, reperti appena riscoperti. Tuttavia, non
ascrivibile interamente alla pura sfera dell’io lirico, giacché il verso di
Bruno Galluccio, in questa tarda quanto feconda opera prima, così ricco di
aromi e insenature, è anche discorso matematico, allude alla sfera scientifica.
La vena umanissima di questo poeta non si dispiega mai al di fuori della verifica
sul proprio modo di vivere che è propria della filosofia greca e che aveva come
obiettivo la costruzione di un dialogo intorno a concetti di cui, se non si
potevano dare definizioni assolute, si potevano però disporre su un piano le
ragioni, motivarle, creando adesione intorno alla propria visione. Modo di
vivere che, se tendeva alla saggezza senza mai raggiungerla pienamente, dava
luogo anche a un’attività contemplativa.
quando dicevo suono
intendevo dire piuttosto la fine del
suono
quando in sé ricade
e ciascuno nella sua separazione lo
vede
tramutarsi in mancanza
e si esercita allora in sottrazioni
e ammette i limiti del corpo
ma quando dicevo vento
intendevo davvero vento
con tutto il nero e le rotazioni che
conduce
e pure intendevo il segno polare
capace di versare sguardi nel cielo
improvviso
con la domanda ancora incompleta
ai piedi di alture incavate
I due tipi di discorso, quello
analitico, geometrico e quello relativo all’esistente, alla sfera soggettiva, vengono
tenuti costantemente sulla graticola in un confronto diretto che non li vede
mai fondersi. La distanza mantenuta aperta come lame di forbici divaricate serve
a non perdere lucidità analitica e a non rinunciare alla contemplazione
immaginativa come, appunto, accade nella filosofia antica. Non a caso è presente nei versi anche la forma
dialogica: un costante riferirsi al tu, al noi, per arricchire la visione che
altrimenti non includerebbe anche le posizioni opposte. È nel dialogo che,
infatti, Galluccio tende a costruire relazioni, legami tra le contrapposte
sponde, che moltiplica i trapassi, i passaggi, tra la scienza e la psicologia,
tra la ragione e la morale: “e guardi il polpastrello e il viaggio / dei suoi
atomi / dal big bang a questa zattera coerente”. I meccanismi di una ragione che si accampa con
la sua capacità analitica e di una poesia capace di introdurre alla via
contemplativa sono fatti sfrigolare l’uno contro l’altro da Galluccio come
componenti dalle quali non è possibile
separarsi al fine di costruire il quadro del nostro stare al mondo: “i treni
accadono precisi / oltrepassano il fondo della retina / e proseguono lungo le
domande delle mappe // noi restiamo muti vapori sui vetri”.
Ma il poeta napoletano perlustra anche
il regno dell’estetica, della sinestesia, dove le cose se non scambiano la
propria essenza, condividono, però, alcuni attributi: “Ecco c’è l’acqua / che
scorre verso il suono limpido / e una luna aperta dispiega la sua diffusione”. In un inclinare
verso gli aspetti delle cose più aporetici: “Il mondo si presenta a noi / che acconsentiamo a deporre il
coltello, / a riconoscere la notte / come
pura assenza di sole”, Galluccio si addentra nelle pieghe e nei vapori, nelle
mobili percezioni, accettando la sfida delle apparenze. Fino al punto che il
suo stesso io viene travolto: “E così
non mi riconosci?”. Anzi più affonda lo sguardo nelle cose, più avverte di
perdere la presa, ma questo è anche il modo con cui afferra ciò che più sfugge
alla presa razionale: “Nel silenzio / l’universo torna a riflettersi in se
stesso / a immaginarsi”. È questo il modo con cui s’insedia nel movimento
oscillatorio delle contraddizioni, della paradossalità del proprio esistere,
corpo compreso, della cifra del vivere.
E’ questa finale commistione ad essere
rappresentata in particolare nell’ultima sezione dedicata a “ George Cantor
matematico”, in cui tutto è presente:
idealità, corpo, concetti, sensazioni, in una sorta di vento che vorticizza
ogni elemento creando la persuasione di uno sradicamento e di un perturbamento,
a costituire l’approdo finale del viaggio di Bruno Galluccio, il quale non
congegna false speranze: “il discorso cade rialzandosi / i giochi completi sono nuovamente disfatti / il quesito viene
gettato sempre più lontano”, riproponendo la lezione socratica. Ma, anche, che approda, nel verso con cui
concludiamo questa lettura: “potrei farmi pantano e sonda che pesca / la
conchiglia che accoglie tutte le acque” , che per essere un riferimento mitico,
un ritorno all’origine, non fa che riproporre una nuova ripartenza, la quale
s’innesta nella spirale vichiana, come l’esegesi di Croce ha indicato, ogni
volta inglobando un nuovo territorio, ogni volta allargando il proprio
orizzonte.
Rosa Pierno
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