La pittura è lo spazio silenzioso tra e intorno alle parole – questa frase di John Berger è stata l’origine di un progetto realizzato nel 2009 alla Temple Gallery di Roma, curata da Shara Wasserman: 4 scrittori (Bruce Comens, Rosa Pierno, Beatrice Talamo e Luigi Trucillo) sono stati invitati a riflettere su questa citazione. I testi poetici che sono stati sviluppati sono divenuti la cornice di sfondo per le due pittrici Georgina Spengler ed Edith Urban, le quali a loro volta usano frammenti di testi in modo ricercato e particolare nel loro lavoro.
Colonia 210 ospita questo progetto nel “Rundgang 2012” dello Spinnerei-Leipzig di Lipsia (Spinnereistraße 7 – halle 20 . eingang E). Inaugurazione: 15 settembre 2012.
GEORGINA SPENGLER
IMMERSIONE/EMERSIONE
Immersione nelle oscure cavità della roccia, nel sordo brontolio dell’acqua che viene respinta dalle pareti traslucide dei sassi. Emersione del chiarore abbacinante di una non materia, polverizzata in aerea posa, intercettante piano promiscuo, d’incerta consistenza. L’ambiguo confine tra le materie, la possibilità di una loro definizione grafica e delle loro relazioni pongono, infatti, un problema di metaforica evidenza. Se è proprio roccia, acqua, muschio ciò di cui si tratta o sia, appunto, un paradossale tentativo di stabilire che esiste un irrisolto confine tra gli oggetti naturali in cui la linea di contorno spalanca un baratro d’irresoluzione. Il medesimo quesito viene sollevato dal nastro di omogeneo colore, che sta sospeso come un galassia su tale naturalistica rappresentazione. Vale come salto di scala che completa il discorso, poiché non esiste concetto di microcosmo che non debba servirsi come necessario polo dialettico del complementare concetto di macrocosmo. In fondo, qualsiasi nostra considerazione dovrebbe inscenarsi su questo teatro per essere esaustiva, per non mancare di complessità e di completezza, non esclusa una sana relatività che smussando estreme posizioni renda tutto soggetto a un’omogenea indifferenziata distesa del tempo. Rocce esistono da sempre, ed esisteranno anche dopo la nostra sparizione: sparirà con noi ogni tentativo di definirle. E, dunque, all’immagine del sasso battuto dall’acqua e arricchita da una dimensione cosmica si sostituisce la medesima immagine che ha questo lampante senso: l’immersione nel consueto causa l’emersione del non conosciuto.
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EDITH URBAN
SOVRAPPOSTO/INCISO
Incidere una tela senza lacerarla è possibile solo se la si rende spessa con strati di colore, di pigmento steso come fosse calce a ripristinare il muro dei secoli, il muro della memoria latente, pronto a balzare in primo piano ed essere tavola del presente appena lo si riconosca come superficie sul quale i segni impressi ci catturino, non necessariamente facendosi forieri di un interpretabile messaggio. Graffi, scarabocchi, piccoli aggrovigliati vortici, parole monche. Su questo impercorribile crinale si pone Edith Urban: sul fatto che il segno possa identificarsi con un significato non necessariamente ascrivibile a una lingua, ma appunto a quello della evocabilità, dell’azione espressiva, del grido inerte che pure deve raggiungere gli altri perché un sostrato universale comune dichiari uguali gli umani che pur s’infliggono sofferenza e fratricide guerre. Che, dunque, tale segno condiviso emerga sulla superficie appena raffreddata di lavico fiume, su un muro di consumata materia, sia inciso o vi appaia sovrapposto, che sia appena uno sgraffio o che sembri estendersi fluente come un’intera frase, giunge a noi colpendoci come un gesto che ci afferra le viscere. Un’evocazione dell’antico che si attualizza nel nostro presente per avvertirci che è sempre possibile cambiare direzione, che niente è scritto in maniera definitiva.
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