Il tentativo di Jacques Derrida di applicare la decostruzione anche all’Architettura, in “Adesso l’Architettura” Scheiwiller, 2011, si fonda sull’ assimilazione di qualsiasi oggetto, di qualsiasi manufatto (sia esso film, opera d’arte, musica, architettura) al testo. Derrida intende il testo non solo nella sua definizione canonica, ma anche in quella allargata agli interspazi, alla firma, a tutto ciò che è connesso al testo.
Se l’intento è quello di destrutturare ogni discorso, ogni logocentrismo per palesare la sua matrice impositiva, auto fondante, regolatrice, non si comprende, però, perché ciò debba avvenire ancora attraverso il discorso, come fosse garanzia sufficiente. Non si vede come l’abbattimento delle coppie oppositive ristabilisca una diversa relazione dei concetti fra loro e smascheri l’auto-fondazione originaria. E che si voglia invece prescindere proprio dalla mancanza della parola nelle arti visive, le quali sarebbero il veicolo più naturale e immediato per decostruire l’imperio della parola è in qualche modo sospetto.
Che cosa, peraltro, la decostruzione, come pratica discorsiva, possa comportare per la pratica architettonica che non sia già del tutto evidente nei corsi di storia dell’architettura o di composizione è retorica domanda. In ogni caso, l’ammissione della centralità delle parole rispetto alle arti non-verbali denuncia la non adattabilità della decostruzione a queste ultime, in quanto la decostruzione appartiene appunto all’ordine del discorsivo, del logos, in cui Derrida si prova a fare esplodere le parole “così che il non-verbale appaia nel verbale”. Se il filosofo francese, infatti, è interessato alle “parole, paradossalmente, nella misura in cui esse sono non-discorsive, per come possono essere usate per far esplodere il discorso” il trapasso di questa pratica nelle opere non-verbali è quantomeno paradossale (sarebbe il non-verbale che esplode nel non-verbale).
Se la preoccupazione di Derrida è di quella di destituire la filosofia dalla posizione di dominio da cui ordina e classifica tutte le regioni del sapere, e se egli manifesta il desiderio di “nuovi percorsi, di un nuovo modo di abitare, di pensare” che dovrebbe investire anche gli altri campi del sapere, “Il desiderio informe di un’altra forma” e che si potrebbe definire come la deformazione che lo sguardo di Derrida impartisce a tutte le cose, ci fa pensare che in questo modo la filosofia continua nel suo tentativo di assoggettamento ad oltranza. Ma il punto focale ci sembra proprio questo desiderio – simile a un languore primaverile, al ‘non so che’ rilanciato e rigenerato da Jankélévitch, a una smania, a un’insofferenza che vuole sempre “un nuovo tipo di molteplicità, con altri confini, altre eterogeneità rispetto a quelle attuali, e che non si riduca alla tecnica della pianificazione”. A prescindere da qualsiasi risultato concreto, pare che l’unica cosa che gli importi sia il nuovo di stampo romantico. In ogni caso solo ciò che non è possibile cogliere, né definire.
Derrida lo dice chiaramente: lui pensa a un’architettura che inventi “un nuovo abitare che non corrisponda più alle vecchie condizioni”, in cui progetto non sia in cerca del controllo assoluto e la comunicazione, l’economia, il traffico non siano dominate da nessun programma predefinito. Vero è che l’architettura come le altre arti e come moltissime altre cose non si lascia ridurre a una definizione filosofica né scientifica. Ma questa è la caratteristica di ogni arte, precede ogni progettazione indipendentemente dalla volontà. E dunque è già naturalmente in atto nell’Architettura.
E che dire di quello che sembra una sorta di stampo in cui Derrida frulla qualsiasi oggetto per dargli le sembianze di quell’unico che gi sta a cuore: niente che sia possibile definire come nuova architettura, ma solo come promessa, ”senza sapere essa stessa dove vada, mai certa del suo arrivo”. Sarebbe questo l’intento della decostruzione, l’evento che “non può essere programmato o totalizzato”. Derrida paradossalmente si chiede: se si liberasse la forma architettonica da ciò che la sottomette (il rapporto con l’origine, l’abitabilità, la memoria, l’estetica, ecc.) si giungerebbe a un’architettura pura? Lui stesso ammette che sarebbe solo una forma mimetica di metafisica. Non sarà bastato disfarsi dei modelli vetusti per fare nuova architettura, poiché la dispersione alla quale essa si abbandonerebbe abbisogna ancora di qualcosa che la tenga unita. Ma Derrida ammette di non avere regole per tutto ciò. D’altronde, la dismissione dei modelli, che ci fa venire in mente l’analisi kuhniana dei paradigmi scientifici, mette in evidenza che i modelli vengono abbattuti dai nuovi, non da una promessa, quindi tutto il moto compiuto dal filosofo ci pare non solo inefficace ma anche errato: l’indefinito in architettura esisteva prima del moto filosofico che presume di indicarlo, anzi, come in questo caso, di inaugurarlo.
Detto in altri termini, decostruire i fondamenti della tradizione architettonica, per Derrida vuol dire criticare tutto ciò che la lega all’utilità, alla bellezza, all’abitare, nella volontà di liberarla da queste finalità esterne, da tutti questi scopi che le sono estranei. “Ma poi si devono reinscrivere questi motivi nell’opera”. “Bisogna ricostruire, per così dire, un nuovo spazio e una nuova forma, delineare un nuovo modo di costruire in cui quei motivi o quei valori siano reinscritti, avendo nel frattempo perso la loro egemonia esterna”. Che è come far rientrare dalla finestra ciò che si è appena estromesso dalla porta. Derrida precisa che decostruire non è dimenticare il passato, ma serve per liberarsi delle rigide opposizioni dialettiche (figura e sfondo, ornamento e struttura, forma e funzione). Ciò comporta anche la possibilità di attraversare i confini delle varie discipline, di creare incroci, innesti, contaminazioni. D’altra parte, il filosofo francese è consapevole che la decostruzione non “sia qualcosa di specificatamente moderno” nel senso che quest’atteggiamento è sempre stato all’opera nella storia e riconosce che esiste un’irriducibilità delle specificità delle varie discipline, ma sembra accordare questa specificità in modo accalorato solo quando si parla della filosofia, mentre dovrebbe riconoscere che quel suo riconoscersi ‘tecnicamente incompetente’ in architettura dovrebbe raggelarlo sulla soglia della suddetta.
Ritornando alla decostruzione che Derrida vorrebbe vedere all’opera nell’architettura, e cioè “il tentativo di liberarsi dalle opposizioni imposte dalla storia della filosofia” – quali teoria-prassi, animale-uomo, filosofia-architettura – essa coincide con l’interrogare “le coppie di concetti che per lo più vengono accettati come ovvi, come naturali, come se non fossero stati istituzionalizzati a un dato momento, come se non avessero una storia. A causa di questa presunta naturalità, queste opposizioni limitano il pensiero”. E per questo il filosofo francese ritiene che “un pensiero architettonico può essere decostruttivo solo in questo senso: se tenta di pensare quello che costituisce l’autorità della concatenazione architettonica in filosofia”. Siamo, come volevasi dimostrare, ritornati alla filosofia: “L’opposizione tra tempo e spazio, tra il tempo del discorso e lo spazio del tempio o della casa, non funziona più. Si abita nella scrittura. Scrivere è un modo di abitare”. Siamo, dunque, definitivamente usciti dal campo dell’architettura. Ma con questo libro non ci eravamo mai entrati.
Nessun commento:
Posta un commento