Il libro “La verità della poesia” Einaudi, 1993, raccoglie tutte le prose di Paul Celan fornendoci testimonianza sul suo particolare modo di porsi i problemi e di indicare risposte, le quali convergono nel tratteggiare un cammino, delineando contemporaneamente le limitazioni insite in questo incamminarsi. Il tergiversare, l’apparente disgressione, il dubitare delle proprie affermazioni per riproporle qualche passo più avanti, domandando e costatando assieme, non manca alfine il bersaglio. E’ una modalità d’interrogarsi che sostanzia anche la risposta. E’ un cercare che ha in sé la propria meta. Cercare è non fermarsi, è sostenere la propria umanità.
Dopo il 20 gennaio 1942 in cui fu decisa la soluzione finale, anche l’arte non può più essere quella che era prima, poiché la soppressione di uomini decisa da uomini scardina ogni logica e interrompe ogni discorso sull’arte, che può essere ripreso soltanto con un impegno etico-poetico. La parola allora appare come recuperata contro l’ammutolire. E assieme a essa è recuperato il luogo utopico, non reperibile, della sua origine, parola-prima, speranza e attesa insopprimibili. E’ questo lo straordinario ruolo propulsivo che Celan affida alla poesia. In questo dire, cercato ostinatamente, senza soluzione di continuità, in questo non dismettere, nonostante tutto, l’abito dell’umanità. Cercare è trovare sebbene utopicamente, sebbene solo su carta, geografia mentale, in cui risiedere è possibile, poiché abitare la poesia è possibile: la terra dell’anti-parola. E la poesia è appunto processo, resistenza, forza indomabile, incoercibile.
Necessario appare, nella coincidenza di arte e poesia, la dimenticanza di sé: poesia parla “per conto di un Altro – chissà, magari di tutt’Altro”, perché il cammino si attua distogliendosi da sé e andando verso “alcunché di arcano straniato”. Poesia coincide con questo cammino che non ha garanzie, ma che cerca l’interlocutore, ogni possibile interlocutore: “Ogni oggetto, ogni essere umano, per il poema che è proteso verso l’Altro, è figura di questo Altro”. L’io stesso è d’altronde estraneo a se stesso. Non perde mai la consapevolezza di dover contrastare la sua stessa tendenza ad ammutolire, ma incessantemente “si evoca e si riconduce dal suo Ormai-non-più al suo Pur-sempre”.
Limiti imposti e possibilità dischiuse dal linguaggio intersecati dall’“angolo di incidenza della esistenza del poeta”, per cui il poema sarebbe “linguaggio diventato figura, di un singolo individuo”. Nello spazio del colloquio attuato dal poema, il quale consente che “abbia voce quanto, all’Altro, è più proprio: ossia il suo tempo” c’imbattiamo in ciò che rimane aperto, che non sfocia in alcuna conclusione, nel fuori. Nessun assoluto. Il poema è reale, tangibile e reca con sé “l’ineludibile pretesa; e quella inaudita pretesa”. Forse mai apparsa così concreta, quando il ballo sono “forse progetti d’esistenza, un proiettarsi oltre di sé per trovare se stessi, una ricerca di se stessi…Una sorta di rimpatrio”.
La lotta è quella contro ogni fissazione del senso, ogni significato anchilosato, per consentire al nuovo di scaturire. Il poema è anche il luogo della libertà. Strumento concretissimo per tracciare percorsi, arrischiare sentieri, tratteggiare nuove direzioni e persino per darsi “una nuova prospettiva di realtà”, il poema, “pur rivendicando infinitezza, cerca di aprirsi un varco attraverso il tempo – attraverso, ma non sopra il tempo” poiché è al proprio tempo presente che il poeta pone interrogativi. Nel poema è la lingua “che vuole farsi attuale nella sua verità”. Senza rinunciare alla “poliedricità dell’espressione”, il linguaggio cercato da Celan mira alla precisione, con esso egli vuole nominare: non trasfigura, instaura. Non cerca la metafora, mira dritta al cuore dell’essere.
Rosa Pierno
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