martedì 8 maggio 2012

Flavio Ermini “Il secondo bene” Moretti&Vitali, 2012


Costruito attraverso un indice, che enumera le fasi cronologiche di un percorso destinale, (nascita, cammino, morte) il saggio di Flavio Ermini “Il secondo bene” Moretti&Vitali, 2012, è contemporaneamente costruzione di una cartografia. La necessità di una cartografia indica che è di utopica terra che qui si narra (e vedremo che questo saggio erode il discrimine di irreggimentazione che lo separa dalla letteratura).   L’estraneità con la quale il poeta guarda se stesso e la propria esistenza produce un diverso piano – progettato - che su quello esistenziale si proietta per imporgli la propria mappatura, le proprie direzioni, con un atto irriducibile. La constatazione del dolore e delle aberrazioni con cui la vita  accoglie l’essere umano, (non esclusa la capacità dell’essere umano di essere carnefice del proprio simile) non è accolta in maniera passiva, ma rivolta contro l’esistente. Così l’indice stesso si rivela come una descrizione dell’esistente e al tempo stesso costituisce una messa in atto delle strategie linguistiche che l’uomo può opporre. E ove la resistenza è in se stessa il fine, poiché la dignità umana non deve  piegarsi dinanzi al nulla, anche se deve riconoscerlo.

Sebbene il testo nelle sue pieghe contenga anche una critica all’età contemporanea, alla tecnica, alla politica, alla rimozione della morte, un peso rilevante è assegnato al tempo in quanto compresente nelle sue tre caratterizzazioni di passato, presente e futuro. Qualsiasi cosa che non tenesse in conto la totalità del tempo, la sua compresenza in quanto origine non afferrabile, futuro infinito, presente statico non sarebbe un tempo umano. Siamo, infatti, costituiti per Ermini da un nucleo atemporale.

“La partita esistenziale si svolge sotto un cielo che tutte le storie senza pace include. La sua distesa uniforme ospita pagine spesso indecifrabili di antichi diari e si apre in ferite dalle quali continua a fluire sangue. Degli astri che la solcano non lascia intravedere che le ombre sul terreno”.    

Dolore, unico contrassegno della realtà umana, nasce anche dalla memoria senza la quale non saremmo né potremmo nulla. Ma da questa scrittura poetica esala un incantamento immediato.  Le parole nominano. Non indicano, non fanno balenare vie intraviste per un attimo e subito dopo scomparse. Siamo agli antipodi dell’ermetismo. Di un senso vagheggiato e inutilmente rincorso. Sulla pagina di Flavio Ermini, invece, nessuna verità  che non sia già data. Le cose si possono nominare. Non c’è nulla che non possa essere detto. Si può dire albero o morte e si indica esattamente albero e morte. Nessun mistero, nessuna fuga.  La poesia non arretra, è lì sotto il nostro sguardo. E’ l’autenticità che il poeta instaura quando nomina. Con la sua persona. Sotto l’incidenza del suo angolo esistenziale, come scolpito da Celan. Con il suo impegno personale, etico, esistenziale, il poeta si dona attraverso il linguaggio,  donando la mappa della propria navigazione. Niente di più preciso, esatto. Il poeta ha una presa salda a cui il mondo si assoggetta nonostante il poeta dalla morsa del dolore non possa liberarsi.

“Ma tutto ciò che si fa limpido nelle nostre frasi resta comunque oscuro sulla scena del mondo” perché “Non va confuso lo strumento della speculazione con la struttura della realtà: la logica con l’essere. L’esperienza è irriducibile, nella sua essenza, al concetto”. Privilegiare la sensibilità rispetto all’intelletto sarà un portato del nostro percorso, poiché più conosceremo più perderemo ogni punto di riferimento. L’accettazione di sé come luogo della mancanza, fortifica, rende liberi.

Le “cose somiglianti” chiamano in causa la metafora, la quale trasla il senso da un campo all’altro, ma le cose restano separate, ricadono nell’ambito della metafisica, mentre solo la nominazione garantisce dell’unione, nell’essere umano. di essenza ed essente. E in questo senso ci riallacciamo all’indicazione data all’inizio, quando abbiamo ipotizzato la caduta della separazione tra saggio e poesia, che poi sta per dissoluzione della filosofia nell’ambito della poesia, a cui Heidegger aveva dato il varo. Il trapasso è insensibile, si legge, si ragiona, si sente, si condivide. Il testo di Ermini si snoda fra le pietre di un giardino Zen: tutti abbiamo presente l’immagine della ghiaia in cui un rastrello ha mimato il fluire dell’acqua fra i sassi. Nessuna metafora: l’acqua fluisce fra le montagne realmente in un giardino Zen ove ci sono solo ghiaia e pietre. E’ questo il linguaggio, è questo quello che ci consente. La rappresentazione presa nel suo valore assoluto. Ciò che è fermo e solido sta per ciò che è fluente e in divenire.

Si direbbe che l’immagine è in presa diretta e che sia simbolica. Se cartografia dovesse essere figurale, sarebbe costruita con carte dei tarocchi, l’estraneo, infatti, è una delle figure centrali nel libro di Ermini: “sarà proprio l’estraneo ad assumersi il compito di cercare per il morente la verità” quella che svela che l’apparenza non è l’essere.” L’estraneo simula, certo, finge, ma trae fuori da sé gli inganni, li esibisce”. L’estraneo è la trasformazione, frantuma le regole, spinge verso la molteplicità.  

Il compito terreno dei mortali è per Ermini “tornare al bene che ogni bene supera: il non essere”, il che trae con sé che “dopo il non essere, sia la morte il secondo bene”. E questo testo è per Ermini, “il diario di chi agisce privo di qualsiasi fede e avanza sapendo di non poter eludere il vuoto”, ma anzi vuole affrontarlo in ciascun istante della sua vita.

La parola ha un ruolo centrale poiché essa risiede tra ciò che si sottrae e la sillabazione dell’essere. Nemmeno ad essa può essere associabile l’idea di fondamento: la parola è spola tra due non congiungibili sponde. “La parola è una linea di partenza e una linea d’arrivo”. In queste forbici, l’apertura verso ciò che non ha nome è la stessa che connota l’opera poetica. Prossima alla verità e alla differenza essa, si situa nel prelogico, abbandonando quanto ci è familiare e attraversando l’estraneo. Ma avevamo appena detto che l’estraneo è l’evidenza (svela che l’apparenza non è l’essere). Dal che crediamo di poter dire, seguendo Flavio Ermini,  che ciò che non ha nome è evidente nella parola stessa individuata dall’atto etico per eccellenza: scrittura in cui è la parola che aprendosi alla morte non cessa di esistere.

                                                                              Rosa Pierno

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