Nella complessa ricognizione effettuata da Giorgio Agamben nel suo breve quanto intenso saggio “Ninfe”, il punto focale dell’indagine riguarda non il mito, ma l’immagine e le modalità in cui l’immagine può raccontare una storia. Agamben analizza il video di Bill Viola “Passion” in cui i personaggi apparentemente immobili, compiono invece impercettibili movimenti e, muovendosi, si caricano di tempo. I video di Viola “non inseriscono le immagini nel tempo, ma il tempo nelle immagini” e questo determina la possibilità della loro trasformazione nel tempo. Esse vivono in noi e assumono nuovi significati. Ma vi è un particolare modo in cui esse si caricano di senso: trascorrendo in un stato interstiziale: passaggio fra due istanti precisi. Agamben richiama un testo di Domenico, coreografo e maestro di danza alla corte degli Sforza di Milano e a quella dei Gonzaga a Ferrara, poiché nel suo testo è presente una particolare definizione di fantasma: “un arresto improvviso fra due movimenti, tale da contrarre virtualmente nella propria tensione interna la misura e la memoria dell’intera serie coreografica”. Memoria ed energia dinamica insieme.
Ed è attraverso questo elemento, “fantasmata”, che Agamben si riallaccia alle riflessioni compiute da Aby Warburg sul tema delle ninfe e della sua trasformazione nei secoli: “dalla portatrice d’acqua di Raffaello fino alla contadina toscana fotografata da Warburg a Settignano”, ribadendo che sarebbe un errore andare in cerca dell’originale o dell’archetipo rispetto al quale si debbano cercare invarianze: “La Ninfa è un indiscernibile di originarietà e di ripetizione, di forma e materia”. Ove il tempo ha una funzione essenziale poiché la sua forma è ”indiscernibile dal suo divenire”. Le ricerche di Warburg, che sono contemporanee alla nascita del cinema, e hanno in comune con esso “il problema della rappresentazione del movimento inerente alla persistenza nella retina che coinvolge la memoria delle immagini, individuano anche il tema della “sopravvivenza” relativa a quella “vita delle immagini”, della quale si rintraccia la persistenza nel corso dei secoli e nei luoghi più impensati (gli dei pagani, nei quadri cristiani, ad esempio). La loro sopravvivenza non è, pertanto, “un dato, ma richiede un’operazione di tipo interpretativo, la cui effettuazione è compito del soggetto storico”.
L’aggancio con la teoria elaborata da Benjamin nel libro sui “Passaggi parigini” è offerta dalle “immagini dialettiche” e per Agamben è chiaramente connaturata al discorso fin qui condotto, poiché: “l’immagine è dialettica in situazione di stallo”, soglia cioè fra l’immobilità e il movimento nella “pausa carica di tensione tra di essi. Adorno riprenderà il concetto di “immagine dialettica” formulato da Benjamin: “Estinguendosi nelle cose il valore d’uso, le cose, estraniate, sono svuotate e in quanto cifre simboliche, attirano significati”. Dove, cioè, “il senso si sospende, là appare un’immagine dialettica” e “in un’oscillazione irrisolta fra un’estraneazione e un nuovo evento di senso”. Il meccanismo non è logico, ma analogico e i due termini non sono composti in unità, ma rimangono “in una coesistenza immobile e carica di tensioni”. Agamben ritorna a Warburg e al suo modo di confrontarsi con le immagini, ricevute attraverso una memoria storica. E’ pertanto nell’incontro con un individuo vivente che le immagini possono riacquistare polarità e vita. L’obiettivo di questo incontro non è dare fissità all’immagine. L’atlante è, in questo senso, “una sorta di stazione di depolarizzazione e ripolarizzazione” , in cui “le immagini del passato, che hanno perduto il loro significato e sopravvivono come incubi o spettri, sono tenute in sospeso nella penombra in cui il soggetto storico, fra il sonno e la veglia, si confronta con esse per restituire loro vita – ma anche, per destarsi eventualmente da esse”.
Agamben rifocalizza la propria attenzione sulla ninfa che era oggetto di conversazione nella corrispondenza tra Warburg e Joelle e puntualizza come a entrambi fosse nota anche la teoria del Paracelso: quel ramo esoterico che la designa come oggetto per eccellenza della passione amorosa. Ninfe come spiriti elementari che non hanno anima “e non sono quindi né uomini né animali (in quanto posseggono ragione e linguaggio), e nemmeno propriamente spiriti (in quanto hanno un corpo)”. Tuttavia, le ninfe possono ricevere un’anima unendosi con un uomo e generando un figlio (da qui il loro legame con il regno di Venere). Le ninfe sono dunque una sorta di imago dell’uomo, come l’uomo è immagine di Dio. Il concetto della ninfa come oggetto d’amore sarà ripreso da Dante e da Boccaccio, (per un approfondimento della questione letteraria in Dante e Boccaccio si rinvia alla raccolta di saggi “Categorie italiane” di Agamben), ma mentre per Dante “l’oggetto dell’amore rappresenta il punto in cui l’immagine comunica con l’intelletto, in Boccaccio è il rapporto tra vita e poesia”. Boccaccio è anche colui che “apre una cesura insanabile fra le Muse e le donne da cui consegue “la cesura tra realtà e immaginazione. Attraverso tale frattura penetrerà il flusso farsesco della letteratura. L’immaginazione, scoperta della filosofia medioevale, si situa “al limite fra corporeo e incorporeo, individuale e comune, sensazione e pensiero”, andando così a sottolineare l’esistenza di una zona di passaggio. L’amore stesso viene pensato come “amore di una imago, di un oggetto in qualche modo irreale, esposto come tale, al rischio dell’angoscia” e del mancamento. Le immagini sono il luogo dell’incessante mancare a se stesso dell’uomo. Per Warburg lavorare sulle immagini, infatti, voleva dire lavorare proprio sulle zone di confine, dove le immagini sono afferrate nella loro vita puramente storica, la quale coincide sempre con la storia dell’umanità.
Rosa Pierno
1 commento:
Decisamente interessante ciò che Lei scrive e ordinerò questo testo poi ne riparleremo! complimenti per il Suo blog: molto chic..
r.m.
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