La prima mostra personale in Italia di Olivier Roller (Strasburgo, 1971), presso la galleria romana “Spazio Nuovo” (dal 6 ottobre 2011 al 7 gennaio 2012), con l’alto patrocinio dell’Ambasciata di Francia e curata da Peter Benson Miller e Paulo Pérez Mouriz, per uno strano caso, riporta a Roma immagini familiari e straniere al tempo stesso: ritratti di una statuaria romana che si è dispersa per le provincie del mondo (Museo del Louvre, Museo di Copenaghen “Ny Carlsberg Glyptotek”, Museo d’Arte Antica di Arles, Museo Archeologico Nazionale di Cagliari) e che ora ritornano in modo provocatorio pur se in forma classica, come estranee pure se originate a Roma.

Roller abilissimo, ce ne offre in sovrappiù squarci visivi, tagli sbiechi, riprese dal retro, quasi a rendere più problematica la lettura o a offrirci un’insospettata diversa modalità di catturare informazioni, quelle sfuggite alla storia: poiché è di umano che si tratta. Rileviamo che guardare un busto al museo è operazione differente dal guardare le fotografie di Roller. C’è qui una sospensione dal potere e del tempo, più che una messa in rilievo, c’è la sottrazione di tutto ciò che conosciamo: la ritrattistica romana, realistica, rispetto a quella ideale dell’arte greca, il ruolo politico di imperatori o quello culturale dei filosofi, il ruolo di giudici, senatori, tutti aventi titoli per farsi effigiare nel marmo. Tutto è sospeso in queste fotografie dove il vero problema è il rapporto tra volto e carattere. Con quali strumenti possiamo penetrare nelle menti attraverso i volti? Al di là del rintracciare attraverso la fisionomia il carattere, poiché il tentativo sarà comunque tentato e i risultati saranno scarsi, emerge limpida, come limpida è l’immagine così drammatizzata fra bianco e nero, ove i grigi hanno solo il compito di rilevare asperità e difetti del marmo o i segni delle cesellature e dello scalpello, emerge, dicevamo, un tema di singolare rilievo che attraversa tutta la nostra tradizione visiva e letteraria: la vita delle immagini la cui persistenza, fra immobilità e movimento, passa attraverso la loro estraneazione con la perdita del senso originario e la capacità simbolica di riattirare nuovi eventi di senso. Attraverso la visione afferrata di scatto, che forse non resisterà che per lo spazio di uno sguardo, tanto è chimerica, di qualcosa che è scomparso ma che si vuole tenere tenacemente nella memoria, di cui appunto è il simulacro il volto scolpito nel marmo. E’ con esso, ne siamo certi, che Olivier Roller ingaggia la sua più strenua battaglia: far rivivere un simulacro, come viva persona attraverso la nostra percezione e il prestito della nostra interiorità. E’ davvero un invito squisito a cui nessuno di noi vorrà sottrarsi.
Rosa Pierno
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