Testo presente nel catalogo Martha Boyden, Gabriella Drudi “Doppia immagine” Roma, American Academy 1995 e pubblicato sul n.74 di Anterem 2007
Un corpo a corpo con la scrittura per opporsi a qualsiasi tentativo della stessa di divenire narrazione, mentre il testo inevitabilmente lo diviene, quasi per ineludibile spinta interna, per un meccanismo non disattivabile. Persino lo sguardo che s’avvicina alle cose con modalità cinematografiche -distante, vicino, angolato, che ricomincia da un diverso punto di vista - non può impedire lo svolgimento di una storia e ovviamente il tempo non vi ha un ruolo incolpevole. La lotta strenuamente condotta contro tutte le componenti narrative vede nella memoria l’avversario principale e forse qualcosa c’era da dimenticare, da seppellire, qualcosa che invece continuamente rinviene nelle maglie del racconto: la disattenzione, il disamore della persona amata:
“Spogliare il percorso liberare i tanti passi dispersi e soste esultanti a mano a mano che vanno come chi non amando nessuno ama chi non c’è subire una sorta di affetto qualcuno che ti scopre sul suo cammino senza esserci vivere insieme sguardi inequivocabile complici prospettive sguardo scomparso amare minimo riamati al meno rinviati ad amori di percorso essere amati in una sosta passeggera, lasciarsi suggerire e proseguire”.
Che il testo s’intitoli “Biografia” ha qui il sapore di un’ulteriore sfida: e più che biografia parrebbe unico momento fondante, unica verità che si ripercuote su un’esistenza intera e la marchia a fuoco, brucia tutti gli altri fotogrammi, quelli relativi appunto a un’intera esistenza e ne diviene l’emblema incenerito: verità ineliminabile, unico fotogramma di un intero film in una moviola bloccata.
La tecnica usata da Gabriella Drudi è una tecnica che frulla la sintassi e la ricompone. Sorta di collage, ma non casuale, perché i nessi presi a martellate sono ricostituiti secondo modalità che innescano spaesamento e ferrea consequenzialità insieme. Il lettore deve dapprima isolare il nucleo sintattico dotato di senso per comprendere dove inizia il successivo e poi rileggere. La Drudi, pertanto, costringe il lettore a un continua messa a fuoco, stasi e ripartenza, continuamente innescata e che mai giunge a risoluzione. D’altronde, vere e proprie indicazioni meta-letterarie sono disseminate lungo il testo per non tentare il lettore con l’inutile ricerca di una storia e di un finale o semplicemente per esorcizzare entrambi:
“Mi devo raccontare più in fretta altrimenti la storia diventa evidente e contestabile. Nessun finale. Si vede dai giri e dai rigiri sulla pista”. L’intero testo è scandito-puntellato da lapidarie frasi isolate: “Se questo fu il racconto io non me ne rammento”, “Del tragitto e del traguardo il racconto fu scarno” e “ Il racconto rallenta insieme all’ora del tempo consunto”.
E certamente riconosciamo una diretta filiazione dalla prosa beckettiana, ma è qui un omaggio esplicito, in cui pare quasi che la biografia personale o del personaggio coincida con la memoria di Beckett:
“Così per me non insieme il tempo che non passa mai si sarà fermato ricomincio il calcolo saranno venti metri rasenta il recinto e dieci o giù di lì e già lì accoccolato le mani si accanisce ad aprire barattoli se crede che lo lasci alle pietre riverso sulla seggiola bianca senza un pretesto”.
La memoria batte nella mente, la percuote con una mitragliata di immagini che costringono l’autrice a porre un ordine, a dettare una scansione, a effettuare una cernita, poiché non c’è solo una memoria volontaria:
“Nella memoria una qualche memoria tollerante in una memoria intorpidita fino all’acquiescenza c’è uno scambio di pietre con pecore ma il segnale rimane indeciso e se dico null’altro che nuvole la mia voce di allora mi smentisce coi suoi gridi le risa i tonfi dei piedi nudi sul piancito esultante. Per ingannare la memoria ci vuole un principio e un poi dopo. Fino alla fine quando la trama passa di mano”.
Impossibile, pertanto, anche gabbare la memoria, poiché sarebbe necessaria una trama che ricostruisca a posteriori, con cui si possa manomettere il dato esistenziale. Si pensi qui anche alla traslata scala della storia collettiva (che la Drudi ha affrontato nel suo “Beatrice Cenci” ). Proprio quella trama che così tenacemente si vuole tenere fuori. Nessuna trama se c’è un’unica verità che devia la realtà come un campo magnetico. E la memoria, non ingabbiata dal racconto, non può che ribatterla.
In questo splendido breve testo, di appena quattro cartelle, la scrittura appare come una costellazione fittissima, talmente fitta da valere per un’intera biblioteca. Il tempo, siamo certi, collassa solo in testi di tale altezza.
Rosa Pierno
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