mercoledì 8 maggio 2013

Giuseppe Borrone su “MIELE” di Valeria Golino


Regia: Valeria Golino; Origine: Italia - Francia, 2013; Durata: 1h 36’; Distribuzione: Bim; Genere: Drammatico; Cast: Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Libero De Rienzo, Iaia Forte, Roberto De Francesco; Sceneggiatura: Francesca Marciano, Valia Santella, Valeria Golino; Fotografia: Gergely Pohárnok; Montaggio: Giogiò Franchini; Data uscita in Italia: 1° maggio 2013



Miele, nome di servizio della giovane Irene, è un ‘angelo della morte’. Aiuta, dietro compenso, le persone sofferenti a mettere fine anticipatamente a una vita divenuta ormai insostenibile a causa di malattie terminali. Vola periodicamente in Messico per procurarsi i barbiturici di uso veterinario da somministrare ai ‘pazienti’, scarica in rapporti sessuali senza futuro e nel contatto catartico con l’acqua del mare l’angoscia di un lavoro sporco, i sensi di colpa di una missione eticamente borderline. Tutto cambia quando a contattare la ragazza è il maturo ingegnere Grimaldi, deciso a farla finita pur godendo di una salute di ferro. I conflitti interiori latenti esplodono definitivamente e tutto viene rimesso in discussione.

L’esordio alla regia, dopo una venticinquennale carriera di attrice e un’esperienza preparatoria con il corto “Armandino e il Madre”, di Valeria Golino avviene dalla porta principale del cinema d’autore. “Miele”, liberamente tratto dal romanzo “A nome tuo”, di Mauro Covacich, riporta il cinema italiano, a breve distanza da “Bella addormentata” di Bellocchio, a riflettere sul delicato tema dell’eutanasia assistita. La coraggiosa scelta della neoregista napoletana, supportata produttivamente dal compagno Riccardo Scamarcio, è affidata a un rigore stilistico e a una confezione estetica di grande pregio espressivo. La fotografia bluastra e il sofisticato montaggio sonoro creano un’atmosfera sospesa e irreale, che aiuta Miele a mantenere la sua invisibilità, piombando nelle abitazioni dei suoi assistiti, in giro per l’Italia, per poi sparire nel nulla. Con encomiabile pudore, la Golino si sofferma sulla preparazione del rito del trapasso, ma sottrae alla vista i drammatici istanti della morte.

“Miele” è un film che scava negli interstizi del disagio esistenziale, intrufolandosi con garbo e rispetto nei territori del dolore, fisico e spirituale, dell’umanità. Un’opera dal respiro internazionale, non solo per le sue aperture geografiche ma anche per l’universalità del messaggio, che invita a interrogarsi sui confini dell’etica. Il pentimento che si impadronisce della ragazza, preoccupata per le sorti dell’ingegnere a cui ha con leggerezza affidato la letale sostanza, diventa l’indovinato escamotage narrativo per mantenere alta la tensione e la suspense fino alla fine. Nessuno vuole morire veramente, osserva Miele, che ha nell’androgina ambiguità facciale di Jasmine Trinca la traduzione attoriale di un profondo dilemma morale. La carismatica figura di Carlo Cecchi, riecheggiante la stanchezza e la noia di vivere antonioniana, è il detonatore per spingere la ragazza a riconsiderare la sua attività, a spegnere la musica in cui si è rifugiata per sfuggire al rimorso e a guardare finalmente negli occhi la vita, che scorre oltre la morte.

                                                     Giuseppe Borrone

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