domenica 5 maggio 2013

Antonio Prete “Meditazioni sul poetico” Moretti&Vitali, 2013



Da sempre assiduo studioso di una letteratura che fa dell’assenza e dell’indefinito il suo oggetto di ricerca, Antonio Prete, nel suo ultimo libro Meditazioni sul poetico, Moretti&Vitali, 2013, conduce la sua analisi quasi assimilando il linguaggio con cui le opere analizzate sono costruite: il suo stile, difatti, segue dappresso le opere studiate. Per ogni lemma che vale come emblema, realtà figurata, “iconica impresa”, egli sviluppa la rete di sinonimi, attirando concetti limitrofi, ampliando fin dove possibile il senso, cercando di tenere assieme quanto più riferimenti semantici sia possibile. Questo gli  riesce perché la letteratura si distingue dalla filosofia proprio per la sua capacità di reggere un discorso teso fra diverse aree semantiche, tra diversi livelli, senza incorrere in errore, anche se naturalmente si accede, per tale via,  alle aporie. Ma le aporie anziché essere temute (come avviene in campo filosofico) sono qui tenute aperte per evidenziare che qualsiasi risoluzione di esse equivale a una perdita. La poesia mostra, pertanto, una fioritura aporetica, mentre Prete si fa carico di una critica che la enuclei con assoluta delicatezza al fine di conservare la ricchezza semantica che emerge attraverso le possibilità offerte da un’espressione linguistica carica di sottintesi e rimandi, di evanescenze e di diffrazioni.

Prete è esplicito nei confronti del rapporto poesia-pensiero: il pensiero della poesia pretende un legame con il visivo, l’esistente, il sensibile e con la lontananza, l’impensato. È una pulsione alla rappresentazione, “una volontà del pensiero: la volontà di fingere l’infinito” e dunque: “Il disegno dell’infinito è solo la lingua che si tende verso la rappresentazione dell’infigurabile”. Da cui si ottiene una diversa concezione del pensiero rispetto a quello della filosofia (esclusivamente logico e dialettico) e lo studioso salentino ne disegna una vera  e propria pianta con i nomi di Leopardi, Celan, Bonnefoy, Rimbaud, Mallarme, Jabès, Baudelaire, Char, ma quasi secondari rispetto all’evidenza del lessico utilizzato da questi poeti e del campo metaforico da loro dispiegato. Si avrà allora il nulla, il vuoto, il deserto, il silenzio, l’esilio, la lingua, il nomade, l’abisso, l’oasi, l’altrove, l’assillo, il fiore, la madre, il dolore, anche campeggianti nei titoli dei paragrafi come insegne che si incaricheranno di disegnare relazioni e tangenze. L’area si mostrerà fin da subito ampia e stratificata, con molte zone sovrapposte e sempre assottigliata ai bordi, come richiede un senso che non può mai essere definito o ieraticamente infilzato. 

Tuttavia una questione centrale è rintracciabile ed è il rapporto tra astratto e sensibile che si rintraccia nella lingua. In questa frase pulsa il pensiero platonico e aristotelico, con la questione della mimesis e con la trasformazione della realtà ad opera del pensiero. Ora, la tesi di Prete è che questo passaggio sia visibile in maniera preponderante e appaia come vivificato nell’opera degli autori da lui citati, poiché in essi rimane come la spoglia del sensibile e pare di vedere, appunto, il momento in cui spogliandosi delle sue particolarità assurge ad essenza. Sarà proprio questo passaggio a determinare la tendenza all’assottigliamento, alla trasparenza, diremmo, del senso, quel punto in cui il senso incontra il suono non come coincidenza, ma come esitazione, varco, aporia. E’ chiaro che la ricerca dell’inespresso, in cui si può dire consista questo assalto che i poeti portano al linguaggio trova forse la sua realizzazione nell’aporia: il poeta è in esilio dal senso, ma non demorde dal raggiungerlo. Sfida, naufragio, distanza, nomadismo, esilio, perdita, soglia completano la pianta di cui parlavamo. “Fare della smagliatura del discorso (aporia) una sovversione dell’ordine del linguaggio e dell’ordine dei rapporti” è ciò che trasforma il vuoto in parola. Ma attenzione, non vi è mai coincidenza, semmai, tensione, lavorio costante, senso che non si deposita mai.

L’accostamento di Eros e Poiesis conduce Prete a scavare il tema dell’amore, e inevitabilmente del corpo, quasi una seconda pianta con le sue stazioni, le sue tappe, i suoi ricorsi: dal Simposio di Platone, passando per Marsilio Ficino fino a Baudelaire.  Oppure, come un filo rosso che percorra l’intero saggio, il tema della visione, “l’oltrepassamento dell’iconico” assieme a Baudelaire, Valery, Bonnefoy, alla ricerca di una poesia che muova “dall’opera grafica, dalla scultura, dall’affresco, dalla caricatura, dal quadro, dall’incisione” per seguire le evoluzioni del linguaggio da una forma all’altra, ove il figurativo se è inteso come una sorta di seconda natura è allo stesso tempo anche artificio. Lì dove nessun concetto può fermarsi, sedimentarsi, risiede il senso aperto dove l’immaginazione “ha il potere di dislocare il vero nell’universo del possibile”, cioè di indicare l’altrove come propria meta. Naturalmente, sempre in questo suo viaggio, Prete, costeggia la nostalgia, la malinconia come altri luoghi di elezione dove il fantasma di un linguaggio dell’essenza sia possibile: come dire il luogo stesso della poesia.

                                                     Rosa Pierno

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