venerdì 31 maggio 2013

Giuseppe Borrone su LA GRANDE BELLEZZA di Paolo Sorrentino

 
Regia: Paolo Sorrentino; Origine: Italia - Francia, 2012; Durata: 2h 22’; Distribuzione: Medusa; Genere: Drammatico; Cast: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte; Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello; Fotografia: Luca Bigazzi; Montaggio: Cristiano Travaglioli; Data uscita in Italia: 21 maggio 2013


Il campano Jep Gambardella si è stabilito nella Capitale da 40 anni, diventando un gaudente viveur e il re della mondanità. Emblema di un’umanità vuota e decadente che ha trovato nell’effimero la propria ragione d’essere. Scrittore di successo di un solo grande libro, spinto da una tardiva consapevolezza, a 65 anni prova a guardarsi indietro. A cercare il senso di un’esistenza frivola, spesa ad inseguire il sogno della perfezione e della bellezza. Attorniato da grottesche figure, percorre il viaggio al termine della notte, come evocato nell’epigrafe iniziale di Cèline, che conduce all’unico traguardo possibile: la morte. Preceduta da quel lungo e interminabile bla bla che è la vita.

Mezzo secolo dopo Fellini e “La dolce vita” un altro regista italiano racconta il vacuo ed eccentrico sottobosco della Roma by night. Una babilonia cafonal-chic popolata da attricette senza talento e autori teatrali sfigati (uno strepitoso Carlo Verdone, nel primo ruolo drammatico della sua carriera), spogliarelliste in declino (la malinconica e sublime Sabrina Ferilli) e aristocratici a noleggio, bambine avviate alla stravaganza dell’action painting e gran dame segnate dal dolore familiare, pseudo vedovi inconsolabili e misteriosi faccendieri, ricche possidenti in cerca di emozioni ed ex soubrette del piccolo schermo che sbucano dalle torte. In un tourbillon di feste, ricevimenti e funerali, “La grande bellezza” è il ritratto feroce di un’Italia volgare e senza futuro. E Jep Gambardella è la metafora di una mutazione antropologica che ha trasformato un popolo di contadini in un coacervo indistinto di nani e ballerine, mediocri comparse ed esibizionisti eccentrici sul palcoscenico dell’avventura umana.

Lo sguardo severo di Paolo Sorrentino si aggira tra le rovine della miseria morale e materiale di un paese che ha smarrito la sua identità, nell’illusione e nell’aspirazione alla fama e alla notorietà. Toni Servillo, attore feticcio del regista napoletano ne “L’uomo in più”, “Le conseguenze dell’amore” e “Il divo”, è un dandy disincantato e annoiato, snob e mastroianneggiante che recupera nella memoria di un amore di gioventù gli stimoli per affrontare gli ultimi bagliori di un’esistenza luccicante. Portavoce di un’umanità cinica e disperata, che affoga il suo malessere nel girotondo dei party e delle serate di gala, prova a concedersi l’ultima speranza di una redenzione impossibile. Recuperando l’innocenza perduta nello sguardo dei bambini, che cantano in coro o giocano nei labirinti dei conventi. Cercando il contatto con il sacro e la spiritualità, attraverso la suora centenaria in odore di santità o il cardinale appassionato di gastronomia. Smascherando l’arroganza e la presunzione, nelle scene culto dell’intervista all’artista concettuale che si scaglia contro le pareti dell’acquedotto romano e nell’aspro confronto con la radical-chic Stefania. Jep resta sospeso nel suo ruolo ambivalente di maestro di cerimonie del carosello circense che anima il can can notturno e di fustigatore della degenerazione dei costumi. La visione del mare, che appare sul soffitto di casa e ritorna nei ricordi dell’adolescenza, è il suo orizzonte catartico e unica via di fuga rimasta in piedi.

Sorrentino alza ulteriormente l’asticella del suo virtuosismo tecnico, spingendo la regia in una direzione estrema e visionaria, barocca e immaginifica. A partire dalla splendida sequenza di apertura sul belvedere del Gianicolo, in un’armonia primordiale di suoni naturali e artificiali, lo scroscio delle fontane e lo stormire delle foglie, i fluidi movimenti della macchina da presa al ritmo delle campane, l’incrocio di voci e silenzi, i dettagli di statue anonime e la luce abbagliante di bellezza che folgora il turista orientale. Proseguendo per le surreali apparizioni animalesche notturne: una giraffa ai Fori o lo stormo di fenicotteri sul terrazzo, pronti a spiccare il volo sull’abbrivio del soffio vitale di suor Maria. Una cura maniacale di ogni dettaglio che rimanda a un’idea di cinema vicina al perfezionismo di Visconti. Nel bailamme postmoderno scatenato dalla fantasia sfrenata e sovraccarica dell’autore, sostenuto nelle sue visioni da un’eccellente squadra di collaboratori, diventa possibile e naturale frullare il nude look della Ferilli e le improbabili giacche arancioni e gialle del protagonista, il pop nazional-popolare e infernale di Raffaella Carrà e i solenni inni religiosi, le citazioni colte e paradossali di Servillo (“E’ stato bello non aver fatto l’amore con te”) e il trash senza freni dell’arrapato Buccirosso, l’ipocrisia delle nobildonne in paillettes e la dignità di Dadina, la direttrice nano del giornale, l’unica a ricordare a Jep che in un tempo non lontano si è chiamato Geppino.

                                                                                Giuseppe Borrone

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