mercoledì 6 marzo 2013

Thomas Bernhard “Goethe muore” Adelphi, 2013



I quattro geniali testi collezionati in Goethe muore, Adelphi, 2013, di Thomas Bernhard costituiscono l’occasione per mettere sul tavolo la dibattuta questione del suo stile: la variazione della frase che viene presentata in tutte le versioni possibili. Il periodo sarà dato dalla somma delle varianti della frase iniziale modificata secondo i punti di vista dei personaggi presenti nel testo o dei possibili modi di dire la medesima cosa. Se è stato messo in risalto, dalle fonti critiche,  che Bernhard avesse una profonda preparazione musicale, e dunque avesse mutuato analogicamente alcune strutture musicali (la ripetizione, la progressione, il ritmo, la polifonia) nell’elaborazione dei suoi testi, pure ci si deve chiedere in che cosa può consistere l’analogia tra i due campi: qual è il portato semantico della sua trasposizione, quale sia, invero, il valore ermeneutico di una musicalizzazione dei processi linguistico-stilistici. Forse in questo caso, il servigio reso dall’analogia è poco significativo, superfluo, sviante. Gli scrittori adoperano gli strumenti letterari e linguistici, non quelli musicali, i quali non hanno quasi nulla in comune con il linguaggio.

Seguendo il procedimento della variazione messo a punto dallo scrittore austriaco, notiamo che è esso è attuato con modalità differenti in relazione all’obiettivo. Le diverse voci nel primo testo Goethe muore, sono legate a una continua precisazione del soggetto che sta narrando, poiché le voci quasi si sovrappongono (Riemer, Kräuter, Eckermann). Il soggetto, pertanto, si rivela di plateale irrilevanza, vista l’assimilazione del contenuto, e l’autore, infatti, dichiara a chiare lettere che i segretari che s’affollano intorno a Goethe sono dei mediocri. È la forma, indi, ad assumersi l’onere di creare un cortocircuito fra le identità, riunificandole sotto una medesima etichetta: sovrapponibili. Ma il testo ruota intorno a un’altra questione individuabile nell’affermazione su Goethe: “Il Teatro nazionale lo avrebbe rovinato lui, Goethe, così secondo Riemer avrebbe detto Goethe, era stato lui, Goethe a mandare in rovina il teatro tedesco...”. Così come avrebbe annientato Schiller e la letteratura tedesca. Contro Goethe, Bernhard arrota la sua sferzante ironia: l’invito a incontrarsi rivolto da Goethe a Wittgenstein in quanto unica persona a cui egli riconoscerebbe pari valore serve ad arroventare l’attribuzione di megalomane a Goethe.

Nel secondo testo, Montaigne, che ha per oggetto lo scontro tra un figlio e i genitori, ove per il figlio vi è un’unica oasi di pace che consiste nel rintanarsi nella biblioteca a leggere i testi di Montaigne, si assiste al disinnesco della monoliticità della verità: se dapprima si crede che siano i genitori a provare odio verso il ragazzo, il testo nel suo movimento metamorfico, simile ai movimenti di un serpente che si stia liberando della vecchia pelle, finisce con l’iniettare un veleno nel lettore, il quale non può più credere che la verità sia solo quella dell’odio genitoriale. Questi moti di avvicinamento a una verità costruita come inseparabilità del recto dal verso  sono dati ancora dal fraseggiare che cambia continuamente: “Così per tutta la vita mi hanno accusato ora di veridicità ora di mendacio, e molto spesso di veridicità e mendacio insieme, e in fondo è da una vita che mi accusano di veridicità e di mendacio, così come io stesso li accuso di veridicità e di mendacio”. Entrambe le verità emergono in forza di quel rovesciamento che trasforma l’odio ricevuto in odio restituito. In questa situazione non s’innesta nessun paradosso, perché le due verità non si escludono. Non sono verità contraddittorie: non appartengono allo stesso genere. Montaigne diviene, nel testo, il simbolo per il ragazzo di quella libertà e ricerca di autonomia che, appunto, contraddistingue il filosofo, in contrapposizione al comportamento coercitivo dei genitori, indicando la non ineluttabilità dei comportamenti: da rapporti oppressivi ci si può liberare, il cerchio si può spezzare.

Ma è nel terzo testo, Incontro, che si comprendono più dettagliatamente i motivi dell’ossessivo odio maturato dal ragazzo a causa dell’insensibilità e dell’assoluta mancanza di tenerezza, della crudeltà e inutilità delle pretese educative dei genitori, i quali rendono i figli dei carcerati. Nel testo viene utilizzata la variazione della frase, rivoltata e rovesciata in tutti i possibili modi per esaltare l’ingabbiatura del senso, che risulta così non altrimenti declinabile, ferreo come una condanna a morte, mentre la frase si è come dissanguata nello spasmo delle sue evoluzioni. La verità sui genitori è inappellabile, immodificabile. Persino la possibilità del perdono apparirebbe come una futile procrastinazione nel tempo vista l’inesorabilità dell’assunto: il disastro genitoriale si espanderà a macchia d’olio sull’intera vita del figlio.   Abbiamo in ogni caso visto come la variazione sia del tutto consustanziale al testo, ne innervi la struttura e il senso e ogni volta secondo una diversa prospettiva semantica, impedendo che la variazione si fissi come derivata analogica del musicale, sia essa in relazione o scissa dal tema, appartenendo a pieno titolo a una funzione linguistica.

Nel quarto Andata a fuoco è la volta dell’espressione dell’odio per tutto ciò che è austriaco. L’odio per l’Austria è assoluto e la reiterazione conferma ancora una volta che se il significato musicale della variazione è la variazione stessa, non così è in letteratura. Qui, l’insistenza  e la ripetizione  sono misura della repulsione che si prova contro tutto ciò che è oppressione, stupidità, grettezza, asservimento fisico e mentale, rispetto ai quali non bisogna mai deporre le armi. La nausea e il disgusto, così sgorganti e veementi, fungono, appunto, da armi per ribadire differenze e distanze. L’intera raccolta viene a  configurarsi come un battente proclama in favore della libertà, contro l’oppressione da qualsiasi campo essa provenga.    

Rosa Pierno

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