sabato 9 marzo 2013

“Codicillo di poetica” di Gilberto Isella


   La poesia è sempre “in avanti” (Rimbaud) e per questo è profezia. O se vogliamo, va dove è sempre già stata, là dove il principio di contraddizione (e dell’irreversibilità del tempo) non ha ancora compiuto i suoi disastri. Al luogo della (o delle) origini(e). Come dice Ossip Mandel’ŝtam: “La poesia è un vomere che ara e rivolge il tempo portando alla superficie i suoi strati profondi più fertili, la sua terra nera torna alla luce”.

  Questa nera Terra  (la voragine che vibra sotto la crosta del mondo e dell’io,   "vibrazione ininterrotta di un'apertura" - seppur nella 'negatività' del suo darsi – in rotta col tempo lineare e lo spazio euclideo), il poeta deve continuare a innalzarla, a illuminarla. Trasformarla, per alchimia verbale, in Thule, in Monte Analogo.

    Il poeta è l'uomo. L’uomo che riporta la terra-frammento alla totalità (perduta) del Cielo. E che esperisce con dolore l'impossibilità 'umana' di quest'atto.

    Ma tutto, di questa terra, dovrà essere offerto alla parola: anche l’afflizione carnale di un popolo sconfitto, le gesta dell’arrogante custode della polis, i suoi giri di trapano nel vivo marmo dell’Areopago. La peste di Tebe si perpetua nel tempo, il poeta lo ripete in nuovi simboli, con la straordinaria fragilità della sua parola.

     Morte sono le magnolie sui viali arsi dell’alleanza. La poesia deve dirla questa morte, ma sempre le manca la metafora-‘vortice’, luogo dell’impossibile.

   Troppo impetuoso il mare della metafora, e al pilota-poeta non è consentito deviare dai sillabari, dall’ordine di rotta, che per un istante.
   L’istante, quella lunetta bianca nel senso, gli basti. Gli basti il suo impeto rovinoso, perché la metafora vive del medesimo splendore  - il senso – che  accieca il poeta mentre accosta la riva.
 
  Viviamo, postumi, di deficienze virtuose: Campana, Artaud, Amelia Rosselli, Cacciatore, Emilio Villa, Blotto e pochi altri. Per delirio empatico, per sottrazioni e vertigini.

 Word in sorrow. Stecchi pure la parola, non importa. Ma ch’essa rimanga – tremando, arrossendo -  come la scala che conduce la Terra a quella sua luce perduta, da molti chiamata Cielo. Si azzoppi, ma il suo claudicare, il suo andare per lapsus faccia brillare fino all’insostenibilità dello sguardo l’oscuro, il sepolto.
Poiché la luce è palpito del nero.

Solitudine dell’essere è l’a-venire del senso.

  L’Essere, che la poesia porta al parossismo dell’apparire, è l’improbabile, l’assente. Come dice Jacques Dupin: “La poesia non respira, non si distende che tesa dal desiderio dell’altro. Poiché l’altro è lo sconosciuto, poiché essa è sempre l’assenza…”

  La poesia, che non ha dimora propria, è ospitalità dell’altro (Jabés).
  Accolto nella parola poetica, l’altro riconosce l’impossibilità del dimorare.

  Il linguaggio non è la casa dell’Essere, ma del suo nomadismo.
  Oppure: è la mutevole pienezza di una faglia.

   Viviamo nell’epoca della desacralizzazione, della nietzscheana morte di Dio. Dove cercare allora l’Altro? “Il coraggio del poeta è nel contempo di portare nella lingua il pensiero di Dio che si è ritirato e di concepire il problema del suo ritorno come una parentesi aperta in ciò di cui il pensiero è ancora capace” (Alain Badiou). È in riferimento a questa condizione epocale che va interpretata la solitudine dell’Essere, o l’esilio al quale l’Essere è condannato dalla scienza, dal linguaggio istituzionale, dai luoghi comuni dolcificanti di cui il magma sociale ci nutre ogni giorno.

   Essere non significa necessariamente Sublime. Tutt’altro: è la pastosità bianca di ogni cosa. L’essere che insorge, minima Lichtung, dalle frange più povere, derelitte e indifese del linguaggio.
   L'Essere si annuncia quando il linguaggio chiede alla poesia di prendersi cura del mondo. Una cura disperata (come in Benn, Celan, Campana), che, se non redime il mondo,  lo porta nondimeno alla sua piena epifanizzazione, elevando le sue lacerazioni, la sua follia, al Senso.
   La poesia infonde “mondo”all’elemento infimo, lo fa essere-mondo
[“la mela povera si carica di mondo”, per citare un mio verso, in Taglio di mondo.]

  Questa gaudiosa povertà del dire (dire l’ombra, l’oggetto rifiutato, la perlina smarrita nella sabbia…il rovescio dunque dell’utile, del monetizzabile) fonda la resistenza dell’atto poetico. La poesia è atto di resistenza contro la  lingua di comunicazione, che ci assale con la sua ‘violenza vuota’: vuota d’anima, vuota di senso. Essa risponderà, ad esempio, con la violenza sottilissima della parola di un corpo che non accetta più la patinata reificazione in cui l’immagine (clinica, societaria, pubblicitaria) la costringe.
   Sarà la violenza euforica del dionisiaco, oppure l’ictus tragico del corpo divelto, violato, massacrato che si ribella. I due sembianti di un medesimo corpo. Reversibili, entrambi, nell’enigma.

  La poesia dice la verità come ossimoro. Dice le verità plurali e contraddittorie.

  La poesia annuncia quell’enigma, o quell’Ossimoro assoluto che è l’esistenza.
                                                
                                                       Gilberto Isella

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