Se il paesaggio nell’arte mediale determina senz’altro un dialogo tra i temi della natura e dell’artificio, della rappresentazione e della imitazione, dei modi in cui ci rapportiamo alla natura e ci rappresentiamo, è anche vero che nella verifica delle singole opere si assiste statisticamente a un affollamento delle occorrenze pressoché totale intorno ai temi dell’ecologia e dell’uso del mezzo mediale, ove quest’ultimo modifica non solo la percezione, ma la struttura, il linguaggio, divenendo parte integrante della narrazione. Silvia Bordini parte, per la sua disamina, dalla Land Art, in cui la registrazione è il modo in cui si testimonia l’accaduto: con essa si mostra che si è proceduto con un’azione effimera di cui si possono esporre solo prove documentali come progetti, disegni, foto, filmati.
In questione è il problema del rapporto con la natura dopo che la pittura è sparita dalla linea dell’orizzonte. La Bordini, riferendosi agli studi di Garraud, il quale sostiene che “almeno dagli anni Sessanta, non si può più pensare al rapporto tra arte e paesaggio in termini di pittura soltanto” poiché “è altrettanto vero che in generale l’arte non pensa più a se stessa in termini di pittura”, sottolinea che, inoltre, si insedia in quegli anni “un concetto di opera come luogo di sperimentazioni percettive e dinamiche e come esperienza legata al comportamento dell’artista e dello spettatore”. In tali opere, eppure, se la natura sembra essere l’oggetto della rappresentazione, ricercare una costellazione di significati e di relazioni che nascano da questo dialogo pare del tutto infruttuoso. Al massimo se ne potrà trarre qualche considerazione ecologica, sociale, politica, tant’è che la Bordini specifica giustamente che in generale, l’attenzione ecologica verso il paesaggio è assolutamente predominante e segue sostanzialmente le seguenti tipologie: “il documento di denuncia e la metafora, l’immagine del degrado e quella della nostalgia, il disastro presente e futuro e il sogno di un mondo incontaminato di cui l’arte rincorre la memoria e l’utopia”.
Silvia Bordini evidenzia anche l’esistenza della polemica relativa al neologismo greenwashing che “indica le attività promozionali di aziende e industrie che si dedicano all’ambiente per far dimenticare il ruolo che svolgono nell’inquinamento” commissionando o sostenendo artisti che raccontano il saccheggio delle risorse, la deforestazione, la devastazione apportata dall’uomo e che hanno come obiettivo, “supportato anche da contributi teorici nei cataloghi”, di sollecitare una riflessione critica sul rapporto uomo-natura. Si utilizzano a questo fine materiali effimeri come le piante, sostanze riciclate, si installano orti e piccoli vivai, “a volte sperimentando forme di energia alternativa”. Questi autori mostrano “contraddizioni tra istanze estetiche ed etiche, e tra l’adesione alle regole del mondo dell’arte e la radicalità richiesta dall’impegno di una cultura ecologica”.
In ogni caso, la parte del leone la fa il mezzo mediale. La gamma è ampia: si va dalla citazione di quadri pittorici (dunque opere non immemori della tradizione pittorica) all’accelerazione o rallentamento del tempo di ripresa, dall’introduzione di suoni, rumori, musica (la soundwalk è la passeggiata sonora) alla dilatazione, sovrapposizione e intersecazione di spazi, dallo “stabilire legami con un ‘altrove’ personale e culturale” al “salvare luoghi e icone di un’epoca precedente”. Silvia Bordini sintetizza con grande chiarezza e lucidità che tali opere sarebbero improntate “dall’idea di una seconda natura artificiale, identificabile con la natura del medium”, potendosi individuare in tali esperienze sospese tra suggestioni, disorientamento, e una simulazione immersiva e interattiva - in cui la realtà è esorcizzata da” una stratificazione di riferimenti simbolici” e la sua restituzione viene affidata a “una sorta di visioni fuggitive che non richiedono di essere spiegate” - un altrove perturbante, una mobile zona di confine tra artificio e natura”.
Rosa Pierno
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