François Jullien nel suo ultimo lavoro “Quella strana idea di bello”, Il Mulino, 2012 affronta il concetto di “bello”, così come l’abbiamo ricevuto dalla nostra tradizione, mettendolo a confronto con la tradizione orientale, così diversa dalla nostra. Il lavoro di analisi pertanto non intende mettere soltanto in rilievo tutto ciò che abbiamo lasciato irrisolto sul terreno, ma azionando il confronto con un tradizione così diversa qual è quella orientale, intende anche vedere quali soluzioni alternative esista per affrontare il medesimo problema.
Naturalmente, il problema del linguaggio è di fondamentale importanza, perché “le risorse della lingua predispongono il pensiero. A partire dall’aggettivo, a cui è attribuita la funzione di indicare ciò che non è delimitato, né selezionato, non è suddiviso né classificato e che riguarda genericamente la varietà, il molteplice, mentre con il sostantivo il senso si isola, diventa esclusivo, diventa un concetto assoluto. Così “il bello” (sostantivo) “designa esclusivamente ciò che, separato dall’uso e avulso da dipendenze, incarna una qualità specifica”: il sostantivo essenzializza.
La lingua cinese invece non distingue morfologicamente tra aggettivo e sostantivo: “essa non isola un senso puramente estetico che possa essere poi ipostatizzato dal pensiero”.
Certo, dalla pratica filosofica inaugurata da Platone che ha posto il bello come ciò a cui tutto va ricondotto, ponendo fine alla infinita dispersione delle cose e superando così il realismo, nascono alcuni problemi: dai sensi (quali e quanti) con cui si percepisce la bellezza, all’inclusione della morale, dalla presenza dell’utilità o dell’adeguatezza all’indifferenza: “a sfuggire è, ancora una volta, la natura di quanto è in comune”.
In ogni caso, come messo in rilievo anche da Diderot nel suo “Trattato sul bello”, la bellezza è un enigma senza soluzione, a cui tutti hanno dato una definizione diversa, mentre “la lingua cinese non ha privilegiato un unico elemento semantico” lasciando libero gioco alle sfumature e alle corrispondenze poiché il punto di vista assunto è quello di un processo continuo, il quale regola sia il corso del mondo sia il comportamento umano. “E ciò, quindi, senza che al suo interno venga isolato e pensato separatamente – come immobile, estratto dal sensibile e istituito come norma ideale – quel “ciò che” sostanziale, quel soggetto reciso da qualsiasi processo che “supporremmo” al di sotto di questa diversità e che chiameremmo “il bello””.
Riassumendo, nella cultura orientale: “il campo semantico rimane vario e nessun termine sembra prevalere sugli altri” né si lascia ordinare secondo un’unica prospettiva. La formulazione cinese ci riporta al di qua dell’effetto monopolizzatore del concetto, tenendoci così vicini al piano originario della percezione e al suo dinamismo.
“Se il bello si separa dalla vita è perché sceglie di sottrarsi a ciò che è perituro, contingente, individuale”. Platone, per realizzare questa separazione ha escluso dal bello ogni condizione, rendendolo in-condizionato attraverso il privativo. “Ma se si neutralizza ogni possibile determinazione alla fine cosa apparirà?”. Quel che ne resta è inevitabilmente “una bellezza “disincarnata da ogni cosa, che non poggia su niente e non si lascia ridurre da nessuna prospettiva”. Sarà un bello autoreferenziale, che si rifletterà in sé. Ma Platone assegnerà al bello un privilegio unico: quello di trasformare l’ambito delle idee in ideale, in qualcosa al quale aspirare. “Promuove e distingue il visibile per il solo fatto che non si riduce ad esso”. Il bello ci insegna che “l’uomo è l’essere che porta “l’altrove” in sé (“pensare” consisterà essenzialmente in questo).” Il bello è iniziazione che “riconduce verso un “Lassù” – in questo caso la lingua dei misteri non è un semplice orpello”. Ed è scavando nel mondo “un’assenza che il bello rapisce il nostro sguardo”.
Separazione e mediazione costituiscono le due operazioni fondamentali del pensiero europeo. Dopo avere contrapposto il visibile e l’intelligibile, l’empirico e l’idea, il bello è usato per attuare la mediazione tra le due sfere separate. Da Platone a Kant persiste questo dualismo metafisico, che nel pensiero romantico si trasforma in oscillazione. Solo con Hegel si assisterà a un’apertura, per cui l’apparenza non si opporrà più all’Essere e il bello diventerà la manifestazione sensibile dell’Idea.
Nel pensiero cinese il dualismo appare completamente risolto, anzi non è mai preso in considerazione. Lo spirito “non rappresenta una dimensione a parte ma trova “accoglienza” o “alberga” esclusivamente nel sensibile”. Essi appaiono fusi, si espandono l’uno nell’altro, perdono la propria determinazione. I Cinesi non pensano in termini di Essere, ma di processo, non in termini di qualità, ma di capacità, “né in termini di modello e imitazione, ma piuttosto di corso e di viabilità”. Essi non hanno bisogno di parlare della bellezza e quando parlano della forma si riferiscono solo a una formazione energetica, in cui si concretizza il dinamico delle cose “ e non già a una forma modello “sulla quale i greci hanno fondato il bello”.
Rosa Pierno
Nessun commento:
Posta un commento