nella collana: "Narrazioni della conoscenza" diretta da Flavio Ermini
Quando nel pensiero si ravvisi angoscia e in tal misura da caratterizzare l’esito della forma testuale, non siamo soltanto in presenza, per Evelyne Grossman “L’angoscia del pensare” Moretti & Vitali, 2012, di una strettoia in cui vengano considerati solo alcuni aspetti, ossessivamente perlustrati e in maniera asfittica, per quella crisi che a tratti fa perdere anche lo scopo dell’atto dello scrivere, ma siamo di fronte contemporaneamente alla creatività, anzi al suo precipuo carattere: quella melanconia che ogni atto artistico stringe a sé, fin dal rilievo di Aristotele, ripreso poi così splendidamente nell’immagine di Durer. Questo nodo insondabile e inscindibile guida lo spoglio della Grossman nella letteratura e nella filosofia francese. I nomi, d’altronde, sono contenuti nel sottotitolo: Artuad, Beckett, Blanchot, Derrida, Foucault, Levinas, Lacan.
Le psicosi, la paranoia, “il trauma della persecuzione, l’esposizione alla ferita, l’io posseduto dall’altro ne sono i sintomi più evidenti”, ma anche la “follia consapevolmente accettata e rivendicata”. Follia come alterità. Risulta chiaro allora che la disamina, se mette in luce le caratteristiche della scrittura dell’angoscia – e vedremo poi in che cosa esse consistano – mette in luce le strategie e le scoperte conseguite. Nessuno degli autori esaminati soggiace all’impulso autodistruttivo senza secernere l’antidoto della propria sopravvivenza. E una delle strategie basilari risulta essere quella dell’annullamento del soggetto che non è mai perdita di voce, ma è scrivere nonostante tutto, e si assuma come esempio sommo la poetica bechettiana.
L’annullamento del soggetto è usato come forcipe per dar luogo a un’insensata nascita eppure nascita, a un resistenza protratta fino ai limiti, all’inesausto tentativo di saggiare soglie e ombre, margini residuali e pieghe in cui il soggetto possa usufruire di modi che sfuggano alla morsa diaccia dell’angoscia. In questo senso il passo di Evelyn Grossman è persino lieve, oltre che delicato. Enumera le strategie messe a punto, e senza porre l’accento sulle differenze, chiamiamole grossolanamente di genere fra letteratura e filosofia – eppure, quanti di voi hanno letto quel monumento anfibio che è “Il sogno di un visionario spiegato coi sogni della metafisica” di Kant sa di che cosa io stia parlando – mostra il lascito concreto e tuttora ricco di vene d’oro da scovare che ci viene da quegli artisti e pensatori che non si sono sottratti alla lotta con l’ansia, il nichilismo, la perdita di riferimenti e fondamenti, ma l’abbiano affrontata di petto, mettendo sempre “in discussione i limiti tra dentro e fuori (limiti della dicibilità)”.
Al centro è dunque, inevitabilmente, anche la questione tra essere e divenire. E qui viene in mente la figura simbolo del polpo nella cultura greca indagata magistralmente da Vernant ove la capacità di dissimularsi sulle rocce e di nascondersi alla vista altrui delinea le strategie che appartengono all’incessante divenire e non a caso molti sono gli accenti di questi pensatori sulle capacità metamorfiche e strategiche – e l’autrice non si limita al solo pensiero dei sopracitati, ma anche alle opere di Kafka, di Mallarmé , di Duras, di Starobinski, di Saussure, di Barthes, di Proust, di Nietzsche e che si avvicinano, crediamo ineludibilmente, al pensiero orientale “in quel movimento in virtù del quale senza posa ciò che scompare appare. Quando nomina, ciò che essa designa è eliminato; ma ciò che è eliminato, è mantenuto”.
E’ il pensiero del fuori foucaultiano, “quel fuori dove scompare il soggetto che parla”, poiché l’essere del linguaggio appare per se stesso solo nella sparizione del soggetto”. Ed è la risposta all’esigenza posta da questa ampia categoria che include filosofi e scrittori “di uscire dal soggetto identitario, intenzionale e cosciente, che crede di sapere ciò che dice quando scrive” e che viene attuata con una “soggettività in costante spostamento, senza un punto di enunciazione fisso, “un io senza me” dice Blanchot””.
Le cifre stilistiche che emergono comprendono, infatti: “il riciclaggio di citazioni, metamorfosi di frasi deformate e riprese, una scrittura cannibalesca proprio come la lettura che assorbe, assimila e trasforma”, che “gioca a mantenere aperta la distanza fra gli opposti, la tensione tra disaccordo e accordo”, che si manifesta attraverso “scarto, vuoto, sparizione, dispersione, cancellazione, luogo senza luogo” e “incrinatura, sospensione” articolando così quelle forme contraddittorie e quei paradossi “ che minacciano sempre di irrigidirsi in opposizioni binarie. Forme che si ricavano, dunque, dalle modalità di indagine della filosofia e della letteratura. Evelyn Grossman non manca mai di rilevare le faglie energetiche in cui nel contatto non si distinguono più materie differenti, quelle su cui si può lavorare in maniera non dogmatica, mantenendo aperta ogni questione, mai saldando, mai suturando.
Rosa Pierno
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