mercoledì 13 aprile 2016

Marie Curie “Pierre Curie, mio marito” Gattomerlino edizioni, 2015

Sarebbe paradossale il libro su una coppia, se esso non consentisse di penetrare nella sua intimità, eppure è proprio questo il caso, poiché essa è completamente estroflessa nella vita pubblica: ecco il singolare lascito dello stupendo libro di memorie scritto da Marie Curie Pierre Curie, mio marito, edito da Gattomerlino edizioni nel 2015,  per ricordare la persona e l’attività di Pierre Curie, intendendo in tal guisa innalzare un monumento all’uomo ad uso delle generazioni future.
Nel parlare della produzione scientifica e della dedizione al lavoro del marito, Marie Curie non può evitare di parlare della loro collaborazione, avendo condiviso con lui gran parte delle ricerche che hanno fruttato loro il Premio Nobel, ma si comprende che lo faccia quasi con imbarazzo. La palma Marie la assegna a Pierre e lei si disegna come figura in ombra, poiché, appunto, codesto è sopratutto un libro di amore. Di stima senza limiti.
Tuttavia, ben presto, nello svolgersi della narrazione, altri elementi concorrono a disegnare la complessa scena: la descrizione del lavoro in laboratorio e delle difficoltà procede senza che mai il resoconto della ricerca si separi dal lungo elenco delle difficoltà in cui la coppia si è trovata a operare, formulando una denuncia che ci colpisce in pieno in quanto cittadini: il disinteresse e spesso l’indifferenza con cui sono accolte quelle imprese portate avanti dal singolo quando non è immerso nella rete delle raccomandazioni istituzionali.
Se la scienza non è argomento di facile divulgazione, essa, ieri come oggi, risente anche di un’opinione negativa e, questa sì, capillarmente diffusa, per cui a mancare è proprio il sostegno della società civile all’impresa scientifica. Risulta lampante, pertanto, come il valore dell’educazione e della preparazione culturale divenga uno dei temi centrali, anche se indirettamente, per la soluzione del problema.
Tuttavia, nel racconto di Marie Curie emerge in maniera particolarmente spinosa anche il problema relativo al ruolo degli stessi operatori sceintifici, responsabili del mancato riconoscimento degli strabilianti successi ottenuti da entrambi i coniugi. A parte il concreto aiuto offerto dai pochi è notevole l’indifferenza dei molti.


Seguiamo con dispiacere lo svolgersi faticosissimo e privo di mezzi -  se non quelli messi a disposizione dall’appassionata dedizione dei coniugi all’ideale del vantaggio della collettività -  grazie ai quali gli esperimenti hanno, nonostante tutto, avuto luogo  (pur se Marie e Pierre erano privi di finanziamento, di luoghi adeguati e, ove, oltretutto, al freddo del capannone si accompagnava la fatica di dover scaricare enormi quantità di minerali e il doversi incaricare dell’approvvigionamento degli stessi). 
Alla sequenza di straordinarie scoperte nei campi della cristallografia, del magnetismo, della piezoelettricità e della radioattività  si accompagna l’altrettanto lunga lista di richieste mortificate e di riconoscimenti mancati. Eppure, l’irriducibile atteggiamento di resistenza e di caparbietà negli anni, continua ad accompagnarsi a ideali che non vacillano, anche in condizioni avvilenti. Pierre appare come un uomo non abbattibile, perché il suo ideale lo spinge a superare ogni problema in vista di un miglioramento di vita della popolazione mondiali (la loro rinuncia ai diritti delle scoperte viene perseguita per favorire la ricerca di tutti gli scienziati). Già durante lo sviluppo delle loro ricerche,inoltre, vengono messi a punto i primi laboratori medici che sfruttano le caratteristiche della radioattività per cure mediche.
Vogliamo notare per inciso che l’amore di Marie per Pierre la rende incline a scrivere un libro di memorie in cui lei si assegna quasi un ruolo secondario rispetto all’attività di lui,  in funzione di un amore che non trova limiti né in sé né nella persona amata. Se limiti ci sono, essi risiedono nell’accoglimento dei risultati scientifici da parte della comunità, la quale si nutre, per un difetto del sistema educativo, di una sclerotica visione di separatezza culturale che contrappone la scienza ai valori umanistici.
                                                                                     Rosa Pierno

giovedì 7 aprile 2016

Giovanni Campi “abbecedarj paralleli” eBook

eBook pubblicato da www.larecherche.it in collaborazione con Versante Ripido



Siamo caduti come Alice nel paese delle meraviglie nel pozzo, abbiamo pur anche cambiato dimensione e ci apprestiamo a farci sorprendere dalle meraviglie di una riscrittura che cela in se stessa, per esser riscrittura, la propria ragion d’essere. Qui lo si afferma in maniera perentoria: la scrittura come il sole ha sfiatatoi che eruttano altri soli, altri oggetti letterari.

Questa sorta di preambolo, salito a fior di labbra già alla lettura della prima poesia appartenente alla raccolta di Giovanni Campi, “abbecedarj paralleli”, liberamente scaricabile dal sito www.larecherche.it e realizzato in collaborazione con Versante Ripido, ci consente di centrare direttamente la questione: la manipolazione del linguaggio, quasi come in un congegno di Kubrick, dove al solo ruotare le sillabe di una parola, ne compaiono almeno altre tre e dove  esplodono, come mazzi di fiori dal cappello di un  prestigiatore, i significati rispetto ai quali la favola delle Metamorfosi di Ovidio, si fa, appunto, pretesto, puro graticcio per rampanti germogli.

Che sia questione di pretesto in letteratura, non è il caso qui di ripetere, sufficiente il riferimento in esergo al Manganelli di La letteratura è una menzogna, citato dallo stesso Campi. Più interessante ci pare il dibattere dell’utilizzo di un linguaggio arcaico o desueto (prelevato da testi cinquecenteschi) che d’un colpo ci appare più innovativo di quello contemporaneo. Non sia paradossale affermazione, ma concretissima, consequenziale, che vale come risposta alla consuetudine di certa poesia attuale che utilizza un linguaggio piano, semplificato, sottoposto a minimalismi d’ogni sorta, che si sposa con esperienze di vago interesse e di ancor più incerto valore.  Ci preme insistere, allora, se proprio ci deve essere un partito preso delle  cose, che c’interessa del linguaggio la sua possibilità di non precludersi alcunché. Se il contatto con l’essere è problematico, non si possono recidere le risorse del linguaggio, che quel rapporto deve istituire, per tentare di semplificare il problema e proprio ora, oltretutto, che la sfida della complessità ci spinge a mettere a punto strumenti maggiormente duttili.

Ma ritorniamo nell’officina vulcanica di Giovanni Campi:

ma dove? ‘l lupo ‘n fabula, nocchiero
di urn’o teche, la lunululante ‘nspera,
e numerando ‘l caos – vocj ‘l c’era,  

qual volta? sacer d’ozj l’insincero
divin concilj ‘ fulmini, ‘ diluvj,
d’i tuoni ‘n van emessi sen profluvj  

ove diurno (di urn’o) diventa il punto mediano, il legaccio tra nocchiero e teche, il che dimostra come la variazione del significato se si dà col significante, operando direttamente nella materia linguistica, lega forma e contenuto in maniera inscindibile, dando già sul solo versante linguistico la  corrispondente oggettualità che si riscontra nel reale: materie diverse, ma materie entrambe. Se poi si volesse aprire la questione del modo in cui le due materie si corrispondano, non è, a ogni modo, questione letteraria: essendo, la letteratura “una menzogna”, appunto.  

Tutta da godersi, da assaporarsi in relazione alla più o meno estesa preparazione che si possieda, i cristalli testuali molati da Campi, più che lenti con cui guardare al reale, sembrano mettere a fuoco opere precedenti. Una scrittura che si dica contemporanea è necessariamente una scrittura che sa inglobare in se stessa le scritture precedenti: sostrato in qualche modo fondante, giacché ci si può riferire alla dimensione del tempo solo presupponendo una tradizione.

Questo libro si pone nell’ambito del genere che rende la riscrittura del libro di un altro autore, un esercizio di meta letteratura e, in questa tessitura, è inscritto anche il meccanismo che  presiede alla sua costruzione. Se la transtestualità è una caratteristica a fortiori della letterarietà, è ancora più giusto analizzarla quando ne diviene elemento centrale, come nel siffatto caso. Infatti la trasposizione linguistica nelle forme stilistiche del cinquecento, marca l'operazione come squisitamente linguistica, ed è quindi qui che bisogna cercare la peculiarità dell'operazione.

Inoltre, certi "topoi"  stilistici e tematici, ricorrenti nella tradizione di Catullo e Ovidio, sono ricorrenti anche nella tradizione del Quattrocento e del Cinquecento, ma consentono di isolare, come in una camera asettica, il funzionamento del linguaggio tra mimetismo e trasformazione. E qui potremmo fare un nome per tutti quello di Francesco Colonna con la sua "Hypnerotomachia Poliphili" del 1499.

La transtetualità del testo è l'insieme di "tutto ciò che lo mette in relazione, manifesta o segreta, con altri testi" (G. Genette Palinsesti). Inevitabilmente la citazione comporta un testo di secondo grado (in questo caso complicato dall'inserzione delle illustrazioni realizzate da Giacomo Paolini, "Grotesque alphabet in mythological landscapes", che rappresentano i medesimi temi mitologici) attirando nel proprio vortice anche altre opere (anche qui, faremo un solo nome, quello di Dante, per tutte). In ogni caso, dire la stessa cosa in modo diverso non è più dire la stessa cosa: qui si apre l'abisso plurimo, la trappola di specchi che si riflettono l'uno nell'altro e rendono l'oggetto d'arte particolarmente complesso.

Si guardi a questa mirabile terzina :

l’es empio l’esemplar istesso o nuole
la copia ‘l specular per speglj, d’eco
‘l risuon rintocco secolar i’ preco

In tre versi si condensa l’intera vicenda di Narciso, la quale si dipana come tra le righe, mentre, sono conficcate nei lemmi, come leve, schegge che sollevano la superficie testuale, facendo intravedere al disotto delle chete acque, l’io di Narciso e della ninfa Eco, i quali agiscono non per volontà: l’esempio diviene l’es empio che non vuole la copia, lo specular (riflettere)  per specchi-ritratti, mentre l’eco diviene ritmo, cadenza temporale, che si sedimenta in secoli. Ma valga solo questo come esempio, per dire della scrittura preziosa, cesellata di Giovanni Campi.

Se ascoltiamo il messaggio di Mallarmé: "Ton acte toujours s'applique à du papier; car méditer, sans traces, devient évanescent", vi troviamo conferma che nella materia della traccia è rinvenibile il pensiero. Nel libro di Giovanni Campi si tratta di rintracciare le iscrizioni interne ed esterne, mettendo a frutto le acquisizioni dell’iconologia e della documentalità. Tale sinergia si coglie visivamente per la presenza delle immagini che accompagnano ogni poesia tratte dalla collezione di stampe di Giacomo Paolini: illustrazioni risalenti al XVI secolo.  Le immagini provengono dalla collezione del British Museum di Londra, nata dall'acquisto, nel 1753, della collezione del conte di Oxford.  La presenza delle grottesche che fa da cornice a ogni scena e che denuncia l'influenza raffaellesca, riporta in primo piano la questione insita nella traduzione - di cui Raffaello parla in una lettera al Castiglione - effettuata tramite astrazione e schematizzazione rispetto alla complessità del modello pittorico:  se la riproduzione si pone in ruolo subordinato, la posizione dell'incisore si capovolge  nella capacità inventiva e interpretativa indipendente dal modello. E in ciò possiamo ritrovare, come un quadro nel quadro, (caratteristica tipica dello stile shakespeariano) il legame tra opera visiva e testo nel libro di Campi.

La riscrittura ha significato in quanto, come in un’elevazione all’ennesima potenza "Il sentimento di univocità che caratterizza ogni soggetto dipende dalle sue peculiari deviazioni dalla norma" (M. Ferraris Documentalità). E, allo stesso modo, il principio di individualità/individuazione vale anche per le opere d'arte caratterizzate dallo stile. Tuttavia, ci preme sottolineare che, più si tenta di ridurre   le diverse forme espressive del linguaggio e dell’arte visiva a una vicinanza promiscua, più emerge la loro irriducibile specificità. Saldando in un solo anello le assediate forme - le opere della tradizione, le immagini e la riscrittura -  dal loro sincretismo si ottiene il motivo della loro necessità: niente si può produrre e niente si può distruggere nel sistema culturale, ma non è legge di natura: è artistica norma.


                                                                              Rosa Pierno

giovedì 31 marzo 2016

CoBrA: una mostra europea a Palazzo Cipolla, Fondazione Roma


 
Nel titolo  "CoBrA. Una grande avanguardia europea 1948-1951" è l'esplicito riferimento al carattere internazionale del movimento - che prende il nome dalle lettere iniziali delle capitali dei paesi degli artisti fondatori: Copenaghen, Bruxelles e Amsterdam - ad assumere un intento progettuale, sia nelle idee del gruppo che in quelle degli organizzatori della mostra. Non una facile esposizione, quella presentata dalla Fondazione Roma a Palazzo Cipolla, dal 4 dicembre al 3 aprile 2016, ma estremamente interessante, per certi versi unica, in relazione alle scelte maggiormente omologate del territorio romano,  perché rappresenta un punto di svolta fra le produzioni  dei primi trent'anni  del Novecento e la produzione che caratterizzerà gli anni 60-70. E, come esplicitato dal Presidente della Fondazione Roma, Emmanuele Francesco Maria Emanuele, se il gruppo CoBrA rappresenta un periodo "meno conosciuto sul territorio rispetto ad altri" le sue caratteristiche culturali "si qualificano proprio per quell'ansia di libertà che si percepisce nelle opere in mostra", esprimendo la volontà" di disegnare un'Europa già unita e capace di trasmettere nuovamente valori universali dopo la tragedia dell'ultimo conflitto mondiale". Concetto centrale visto che i conflitti vengono definendosi sotto profili culturali e dove l’intesa interculturale è strumento indispensabile che consente di attuare nella comunicazione intersoggettiva delle forme della nostra vita culturale il superamento delle contrapposizioni.

 
Eppure, se il pensiero va subito all’internazionalità dei nomi che hanno partecipato a questa avventura (francesi, belgi, norvegesi, tedeschi), più che la varietà  delle provenienze conta la messe di interessi nuovi, e tutti sperimentali, intorno a cui costruire nuove identità e processi culturali. Non solo il recupero delle specificità  culturali, delle individualità che costituiscono la ricchezza delle culture, dei materiali figurativi legati alla tradizione locale, ma anche il recupero dell’espressività infantile, delle arti dei popoli non occidentali, un ritorno alla materia e alle forze emotive, prima ancora che percettive, le quali  si legano a pulsioni non sempre logiche o concettuali, e spianano la strada al caos e al disordine, con la loro carica prorompente ed espressiva. Tuttavia, siamo in presenza di qualcosa che forse viene espresso per la prima volta, in barba ai surrealisti: l'inconscio non necessariamente è qualcosa che ci domina senza che possa essere ricondotto in un ambito progettuale. Anche se, come vedremo, non è progetto che passi per una forma, almeno dal punto di vista teorico. Se, infatti, è dichiarata la dissoluzione dell'idea classica di forma, dall'altra, in numerose opere, si riconosce un tenace figurativismo legato alla sfera emotiva, alla ritenzione di ciò che si riferisce ad aspetti concretamente esistenziali (é il caso di Asger Jorn, di Karel Appel e di Constant, di Lucebert con gli animali, i corpi, le teste o di Carl-Henning Pedersen con elementi paesaggistici, urbanistici e favolistici).

 
In   ogni caso la forma é colta anziché nel suo dissolversi, nel suo formarsi sulla retina; quasi setacciata dalla massa di impressioni sensoriali e emozionali. Più geometrico Corneille che struttura in una griglia di raffinatissimi passaggi cromatici o in una  trama coloristica vibratile i suoi oggetti e i suoi temi. Cambiano le scale cromatiche, il grado di forza espressiva, in alcuni mediata da una tonalità emotiva più delicata, ma lo sfondo, in tutte le opere, non è che l'acqua riflettente in cui le  figure si formano e si disperdono per nuove figurazioni, dove l'io sembra esprimersi senza mediazioni e  dichiara la propria libertà dalle convenzioni. Anche se corre l'obbligo di dire che il riferirsi alle arti primitive non può che valere in quanto prelievo da interpretazioni raffinatissime (Costant, "Femme qui a blessé un oiseau avec une feuille mort”) e, dunque, non sono presenti soltanto forme d'immediatezza come è il caso del disegno infantile. Impeti informali privi di figurazione sono preponderanti nelle opere di Karl Otto Götz, William Gear, Else Alfelt, Svavar Gudnason. Nel crogiuolo di CoBrA vengono a congiungersi le influenze tardocubiste, postsurrealiste, materico-gestuali e informali, ma in vista di un superamento delle stesse in direzione di un'arte di  tutti e del conseguente abbattimento dei confini disciplinari fra l'architettura, la poesia, la scultura, ecc.). Lucebert, ad esempio, poeta che diventa pittore, o Christ Dotremont con i suoi segni calligrafici (china su carta montata su tela). Particolarmente interessanti sono i quadri realizzati da quest'ultimo in collaborazione con Pierre Alechinsky, ove i corpi aggrovigliati mostrano la stessa corsività della scrittura.

 
Se si può far risalire all'influenza di Nietzsche l'interesse per un ritorno all'arcaico nell'evo moderno, registrato già in Warburg e più tardi in Cassirer, dalla medesima costellazione, l'avanguardia, in pittura e in letteratura, in psicologia e filosofia ha tratto importanti impulsi. Quasi una filosofia vitalistica, che celebra la spontaneità della vita colta nell'affiorare delle pulsioni non irregimentate. Ma questa, abbiamo detto, è una mostra difficile per la sua complessità e la ricchezza degli spunti riflessivi, oltre che inusuale. Si pensi  all'affermazione - presente nel catalogo della mostra del 1944 - "che tutti possono essere artisti e che l'arte non è una questione di tecnica" con quell'altro snodo esplicitato nel manifesto "il nuovo realismo", il quale propone "una rivoluzione artistica fondata sulle potenzialità naturali della materia e sulla vitalità scatenata dell'essere umano",  il che ci fa notare che il movimento CoBrA riconosce che c'è una materia, ma non una tecnica. Criticando "la concezione dell'automatismo psichico di Breton considerato troppo mentale", il movimento CoBrA precisa che la nozione di spontaneità è "un atto fisico che materializza il pensiero" e la pittura è  un'attività "che fa emergere il flusso psichico inconscio direttamente dalla materia fisica, mettendo in crisi il principio stesso della forma". Ma si comprende perché al centro sia una materia senza tecnica: come scrive Costant (uno dei fondatori del gruppo): "il materialismo è per noi anzitutto sensazione: sensazione del mondo e sensazione del colore".

 
L'arte, pertanto, come risposta alle carenza della società, avente il ruolo di liberare  la creatività e di costruire il migliore ambiente possibile per l'umanità. A ciò si devono le molte facce del movimento "che non facevano capo a un'unica filosofia", ma che erano, appunto,  espressione di uno spirito creativo collettivo il quale, necessariamente anteponeva un certo numero di esigenze etiche alle tecniche espressive. Ma che resta attualissimo, in quanto ancora gravido di sviluppi.

  

                                                                                    Rosa Pierno

 

sabato 26 marzo 2016

Ugo Nespolo e Gio Ferri in Testuale n.57


concordie spastiche smisurate dibattute forzute e spasmodiche carneali viscerali e astrali innumerano volatili carnasciali smascherano tragèdi in càrmina gaudenti l'ossessive disossate prorompenti proposte frantumali immanenti suadenti musiche impùdiche disdicono e deridono sbeffanti ipocrite scarminate prèfiche contabili danni e pròctiti seculi seculorum sforzate sfortune erratiche ere primordiche e distoriche distonici precipitano astri e strologhi e maghi numerici prorompono inimmagini burle magiche e crudelissime intrattenute prolificano in galassie sferzano sforano nature disumane quanto umanistiche e disseccano pasture
eppur anche quandanche si proiettino e si sproloquino indi indefinibili destini sorti distorte incorporali e contorte le sparse spore cantano volatili e ricontano pronubi matricali connubi rinascenze gèrmini miracole iniziatiche ripartite ai termini le metamorfiche metaforiche metaillogiche forme gioiscono e presto s'apprestano danze e novelle istanze in vibratili dinamiche d'arie stanze
                                                                       Gio Ferri


Nespolo e Ferri si danno guerra a colpi di segni
Uno straordinario caso di mimesi, di dialogo in cui ciascun avversario, metamorficamente, assume le forme e le posizioni dell'altro, sorta di adescamento per segni, trappola soltanto paventata, con suadenti richiami subito smascherati e rovesci imprendibili che riaprono la partita: ecco che cosa si tesse tra le pagine della querelle tutta segnica tra i due maestri: Ugo Nespolo e Gio Ferri. Il primo, che con perizia dissemina di virgole, vuoti e pieni, curve e nastri la pagina di sinistra, snodando sequenze in punta di pennello come un narratore; il secondo che finge di rispondergli, di seguirlo, mentre in realtà dissemina ben altri sentieri con significanti tipografici che veicolano il senso come farebbe un tratteggio virulento e a tratti puntuto.
Se vogliamo dirla apertamente, parrebbe che le ben note e sacrosante paratie fra generi, qui, traballino un bel po'! Quando a giocare si trovino due personalità divertite e divertenti, libere e canzonatorie, rotte a tutte le tesi critiche e che, in barba a ogni imposizione di correttezza, reinventano ogni volta la propria espressione, allora val la pena d’assumere il ruolo di spettatore!
Qui, però, non sposiamo la tesi dell'abbattimento delle sponde fra generi, non solo perché questa è la nostra opinione, ma anche perché il gioco è serissimo: condotto come se ne andasse della propria vita. Merita la più profonda attenzione!
                                                                                                     Rosa Pierno


È uscito
TESTUALE 57 / 2016
Critica della poesia contemporanea
Periodico fondato nel 1983 da
Gio Ferri    Gilberto Finzi    Giuliano Gramigna

Direzione
Gio Ferri    Rosa Pierno

Autori

UGO NESPOLO
GIO FERRI

La rivista è leggibile e scaricabile anche in forma di libro sfogliabile
in internet al sito TESTUALECRITICA it

Per informazioni rivolgersi a


Redazione: c.p.32 / 28040 LESA (NO)

giovedì 24 marzo 2016

Marco Furia su “La parte arida della pianura” di Nino Iacovella


La sorpresa dell’essere

Con “La parte arida della pianura”, Nino Iacovella presenta una plaquette in cui il senso dell’esistere, nei suoi multiformi e problematici aspetti, appare protagonista di una poesia che del dire sa cogliere, assieme al significato, il sapore, l’odore, il suono:
il quotidiano, talvolta, riesce a sorprendere e una parola comprensibile, piana, può trovare proprio nella chiarezza un’originale valenza evocativa.
Leggo:

“L’uomo trattiene il sapore delle parole,
il gesto del braccio che sparge i semi”.

Trattenere “il sapore delle parole” è accostato al gesto della semina, ossia a un fiducioso agire esposto al premio del buon raccolto come al castigo di una stagione sfavorevole.
Nella pronuncia

“come un passo nella neve morbida
restituisce al silenzio un suono”

a un’immagine del tutto concreta segue un verso dalla connotazione onirica.
Il silenzio, prima, doveva essere acustico se “un suono” gli viene restituito: una calibrata sequenza, qui, richiama circostanze avvertite dal lettore come trascorse e anche presenti.
Il tempo poetico di questa breve raccolta è ricco di sensazioni, emozioni, colori, immagini, è, davvero, vivido divenire mostrato nei suoi molteplici aspetti.
Molteplici? Tendenzialmente infiniti.
Siamo al cospetto di una sorta di linguistico moto perpetuo in cui inizio e fine mancano e, tuttavia, non sono assenti: l’illimitato deve conoscere il limite per essere tale.
Leggo ancora:

“Questa è una terra che ci segna:
il dito punta all’orizzonte che sfuma

La linea è continua, anche quando inciampa
sulla soglia del dirupo”.

Il poeta non descrive un paesaggio, bensì una sensazione capace di assumere forma.
Tutti siamo in grado osservare l’orizzonte, ma nessuno potrà mai raggiungerlo, nessuno potrà mai dire di trovarsi proprio su quella linea di confine: l’orizzonte, insomma, è un luogo che non c’è.
A pensarci, un senso di spaesamento ci assale, ma occorre che alla sorpresa segua una non inerte accettazione: lo stupore, suggerisce Nino, lungi dal provocare diffidenza o insicurezza, dovrà mutarsi in meraviglia, ossia in (fecondo) rispetto per l’esistere qual è.
E se, talvolta, la paura e lo sconforto proietteranno buie ombre sui nostri giorni, starà
a noi evitare di cadere in un’insanabile disperazione.
Mi pare questo il messaggio di un poeta che vive nei suoi versi e invita i lettori a fare altrettanto.
D’altronde

“L’acqua del fiume in cerca della foce
scivola nell’ordine della natura,
l’unica direzione che la pianura sa dare”.

                                                                               Marco Furia



Nino Iacovella, “La parte arida della pianura”, Edizioni Culturaglobale, Cormons (GO), 2015, senza indicazione del numero delle pagine e del prezzo 

mercoledì 16 marzo 2016

Sofia Demetrula Rosati, tre inediti per Trasversale



Estraniante effetto produce la spaziatura che interrompe il flusso sintattico e si pone in contrapposizione al respiro che, pure, nell’inversione è continuo. Le tre poesie inedite che Sofia Demetrula Rosati riserva alla pubblicazione su Trasversale, sono tutte scandite su questo levare privo del battere. Non mancanza di ritmo, ma un continuo riproporre la nota iniziale, quasi che a ogni sillaba si trattasse di cominciare di nuovo e subito divellere il costruito. Una sorta di vacillamento che, in realtà, è un tenace attaccamento alla percezione, al  presente, che appare quasi slegato e sregolato: tutto si concentra in esso, nessun passato e meno che mai futuro. Non che il riferimento manchi, anzi, è esplicitato solo per meglio azzerarne il valore. Il risultato è una singolare epochè esistenziale, che dona un clamoroso risalto a un esistere che non ha bisogno di lanciare in direzioni temporali la corda di salvataggio, il proprio ancoraggio.

Assistiamo, in tal guisa, alle oscillazioni di una versificazione in cui il vero snodo fra i gruppi di sostantivi e di aggettivi e dei rari verbi è una zona franca, uno spazio vuoto. La sospensione riattiva, o meglio, fa esplodere, la molteplice fioritura di sensi, ma solo per compattarli in un eterno presente. Istante da laboratorio, da messa a punto, quasi sperimentale, ove ogni oggetto linguistico assume la meravigliosa capacità del prisma di proiettare sulle pareti alcunché di diverso dall’oggetto fisico: il dato di partenza è del tutto trasfigurato.

La macchina testuale, messa a punto da Sofia Demetrula Rosati si configura come un artificio atto a produrre una sorta di spazio in cui la poetessa letteralmente abita, unico spazio che le è congeniale. Le false fughe, solo dichiarate, “in fretta mi   scopro    con cura mi    ricopro”, da una condizione esistenziale non soddisfacente, non traggano in inganno. A vedere in quale modo siano d’un colpo fatti fuori desiderio, contributo della mente e immaginazione, c’è da essere certi che ben altre siano le condizioni designanti la stanza testuale congegnata, visto che persino le ‘espressioni’ vengono marchiate come ‘neglette’.

A nostro avviso, in particolare, la seconda poesia, contiene una dichiarazione di poetica, di quelle che oggi è raro trovare in un poeta, essendo molto in voga l’assunzione di qualche tesi filosofica recepita passivamente. Crediamo che in “essere” ci sia un disegno paradossale, del tipo di quelli immaginati da M. C. Escher, in cui si riesce a tracciare quasi una spirale che risucchia se stessa, un avvitamento quadruplo, in cui essere, idea, azione, linguaggio, tutti tacciati di tradimento se assunti in senso assoluto e non relati l’uno all’altro in una continua indissolubile metamorfosi, gettino il seme risolutivo in un terreno che mentre avvelena, fa germogliare.  Il presente, essendo eterno, solo se è sperimentale.            

                                                                                              Rosa Pierno     




ho paura di scrivere

vorrei lasciare una    traccia    profonda
un solco senza semina      ho paura di scrivere
esistere è      diventato   diga dal     desiderio
vorrei che       questa giornata con     questo sole di    fine estate
non finisse più      vorrei vivere     eternamente      così
morire in questo istante     che differenza c’è?
vorrei   voglio    ho dismesso il     desiderio   tutto è     soddisfatto
tutto da rifare     senza il     contributo della mente      senza l’implicazione

non esistono più i      fiocchi rossi e le    dita alate dei     giorni di     magia
ho visto il sole    all’orizzonte    e ho     pensato di poterlo inseguire     ma è
sempre    attesa d’alba   e il      rosa alla fine        stanca
non è        possibile     fermarsi      occorre
vivere     tutti i giorni    che ci    restano
anche quelli    non calcolati       ho paura di scrivere
inarco la fronte    per le      espressioni neglette
in fretta mi   scopro    con cura mi    ricopro



essere

essere    senza tregua     senza    testimoni
costretti a   proseguire un     discorso di    pietà
pur senza    osare uno   sguardo di    compiacenza
con le   retine oscurate     per non
avere attrattive    se non    la  proprietà
di un    verbo che   non è     un’azione
ma l’esigenza  di un universo  che   implode
riavvolgendo la     sua   storia
con l’unico     obiettivo di      tornare
a quel     non dato    dell’essere    che
finalmente   posa un corpo   larvato
nel tradimento di   una   metamorfosi
resa muta   dalla sua         stessa   idea



eravamo persone semplici finché non si ruppero le dighe

ciascuno aveva il     suo dilagamento oleoso    da gestire
le dighe     un lavoro continuo    quella la nostra umiltà     e
umiliazione  devota     con lo sguardo interrotto      inabilitato a    capire   
il contenimento     l’unica urgenza     la semplicità era     la nostra pelle
le urla sommerse      un     forsennato dolore      poi    
un giorno     in un      determinato istante sincronico     un’unica frana
e le prospettive     si sono impossessate del    paesaggio circostante
non sembrava      ci fossero    ombre       sguazzavamo liberi
nei pantani oleosi     e   ascoltavamo     accordandole
tutte le urla     ora emerse     una     ad una
c’era molto da fare     da costruire     misurare squadrare
riprendemmo      un lavoro continuo     senza umiltà     e
umiliazione     increduli  incostanti     con
lo sguardo       sfacciato e     pretenzioso
non ho mai     capito se quel       determinato istante sincronico
sia stato     voluto  o     subìto      non ho mai creduto che    
la semplicità sia     solo      un orrendo     vissuto






mercoledì 9 marzo 2016

Giorgio Morandi


PITTURA

VASI E BOTTIGLIE

Spinge la tavolozza ai limiti del visibile, smorza la distanza tra i toni, chiude le imposte, brucia l'immagine nella retina. Finché i colori si distinguono sperimenta il punto limite rispetto al quale la luce può ancora ammantare le cose, scivolare e tornire gli oggetti.

Sembra bruciare oggetti e fondale con la fiamma ossidrica. Più che vasi paiono tronchi fossili, boccali ossidati, reperti di un'era arcaica.

Certi gialli acidi rimpolpano la materia e servono a distanziare i vaghi toni da ceramica giapponese che tendono, invece, ad astenersi dall'esistere e danno allo sguardo la preminenza sul tatto,  arretrando fino a dove la mente si sperde.

Per contro si può, con abbrunato pigmento carico di spenta polvere, caricare di materia oggetti consunti e ridargli un nuovo nome.

Ciò che è denominato natura morta, viva non è mai stata. Conchiglie, pipe, vasellame non producono nemmeno ombra. Pensiero non si rintana in questi vuoti gusci.

Dovrebbero essere volumi, poligoni, cilindri, le bottiglie e i vasi assemblati come soldatini in sghemba parata. Invece sono trattati come superfici: si afflosciano l'uno sull'altro, producono risibili ombre, tentano di stare in prima fila coi soli toni più squillanti!

In un continuo dichiarato scambio tra pieni e vuoti, tra volumi e superfici, non è di poco peso l'artificio che ivi gioca la sua mano. È un dichiarare che sarebbe convenzione considerare la bottiglia un cilindro e il piano una superficie. Colore s'incarica di mostrare lo scambio, di ripristinare il dubbio. Nulla sarebbe certo sotto il sole, nel quadro!



Tant'è che alcuni vasi e brocche si addensano come le pieghe di una tenda, mostrando superfici ripiegate. Anzi, in tale ispessimento di materia, nemmeno più si distingue ciò che è in primo piano e ciò che sta dietro: bricchi e portacandele si stampigliano l'uno sull'altro e l'ombra vi è elargita come enigma da decifrare.

Acquerellata sagoma di ceramico bricco diviso in due zone dalla luce e dall'ombra, o smangiucchiato da un’abbacinante fonte luminosa, dichiara la propria inconsistenza come oggetto appartenente al reale e apre a considerazione di cognitiva specie.

Un solo colore ravviva l'intera serie di poco distinguibili trapassi di tono e denuncia un'estraneità rispetto al materiale ceramico, implicando una diversità non riducibile alla sostanza.

Se allampanati cilindri svettanti sulla mensola interrompono il flusso del lucore, triangolari bottiglie si smaterializzano tramite colore, scandendo spaziale ritmo.

Oblunghi recipienti potrebbero essere stati messi lì per indicare che contengono vuoto, che circondano con la loro sottilissima lamina un concavo ristagno d'aria. Addossati, se ne ristanno come una dimostrazione che sfida l'intuizione.


Che vivida presenza la palla bicolore nell'assemblaggio di ramati bricchi e scatole di latta! L'ombra, demandata a fingere con il suo obliquo menare profondità spaziale, cede il posto ad affermazione mendace che coagula senso con la sola presenza.

Certi toni da spolvero, da tenue ubriacatura, da seta impalpabile, menano lo sguardo per l'aia, non mentendo sulla reale portata dell'apparenza. Apparecchiano un piano degno di ogni sottilissima disquisizione.

Potresti pensare un concetto che avesse tali gradienti di luminescenza, tali inafferrabili barbigli, che fosse in grado di tenere ferma la mente su baluginanti contiguità e incommensurabili distanze?

Ce n'è abbastanza per riconoscere che fu pittore paradossale, poco incline a credere a quel che vedeva.

                                                                       Rosa Pierno

mercoledì 2 marzo 2016

Stefano Iori “Sottopelle” Kolibris, 2013


Il silenzio e la paura determinano l’atmosfera in cui i sogni hanno luogo, non come qualcosa che salga dall’inconscio, ma come qualcosa di concretissimo, di cui il corpo si fa termometro e che, appunto, corre sottopelle, come recita il titolo della silloge di Stefano Iori del 2013. È di tutta rilevanza che sia la consapevolezza a creare la scena in cui il sogno, a occhi aperti, naturalmente, sgorga: “vortici lenti / di sciamanti traversìe / avvolte da alghe di mare”. La scenografia prevede, nelle note per la realizzazione, anche la scansione di un tempo lento, dolce, senza scosse, che avvolge nelle sue spire rallentando il respiro. Dal corpo non si scappa. Niente di mentale in assoluto sotto il sole.

Assistiamo a varie prove: l’allestimento scenico determina un particolare impulso percettivo/emotivo: oggetti determinano reazioni soggettive. La scena potrà dunque essere caratterizzata da una finestra su cui si osservano le gocce di pioggia scorrere sulle incrostazioni delle precedenti oppure la descrizione di una casa al terzo piano o di una zanzara. Da qualsiasi cosa il poeta si diparta ritorna al sé, a un soggetto che si ritrova, che si riconosce.   Poiché crediamo sia questo il cuore pulsante della raccolta, il moto di esistenza che il soggetto riceve dall’esterno, in un dialogo unilaterale e strumentale che mette in luce l’atto di disvelamento fondamentale. Operazione certamente in disuso nella gran parte della produzione contemporanea, ma di cui non si può non riconoscere l’importanza, anche sullo sfondo di certa filosofia francese, si pensi a un Barthes o a un Derrida che lavorano, invece, per il suo annullamento.

Il soggetto è l’unica cosa che abbiamo e nonostante ciò sappiamo che è mutevole e proteiforme, anche in senso negativo, cangiando come  pelle di  camaleonte. L’io con cui abbiamo a che fare è incostante e infido eppure è con lui e su di lui che bisogna lavorare per costruire il proprio progetto d’umanità: “Mi vedo sfocato sul lucido metallo, / come un’ombra lontana, /  e ciò mi turba ogni volta”.

Ma scendiamo nel dettaglio del lavoro compiuto da Iori per scoprire più da vicino le caratteristiche di ciò che dissotterra/costruisce. Sappiamo benissimo che il soggetto è una creazione culturale e per questo è determinante comprendere ogni volta che tipo di definizione o utilizzo se ne tragga. Lo ricaviamo direttamente dalla voce di Iori: “Così abbandono  / l’ultimo appiglio / e frano nel cielo (buio), / sperando di capire, / sperando di ritornare, / con voglia di rinascere / oltre l’orrore /del pensiero mutilato”. Ecco, c’è subito da recepire che Iori pone il soggetto in relazione ai suoi limiti, ai limiti della specie. In questo senso potremmo affermare che, lontani dal lirismo, siamo nella sfera di un’interrogazione etica che coinvolge il destino umano.

A questo punto si può collocare la malinconia, il tempo immobile della riflessione, la stasi determinata dallo stallo conoscitivo (“Gioia malinconica / che piange sorrisi”) non come oggetto tema, ma come portato di una consapevolezza: l’uomo è chiamato a rispondere dei suoi atti, degli atti storici, degli atti collettivi e di fronte a essi il singolo si sente inane.   Tuttavia, in ogni caso, rispondere è atto dovuto, atto responsabile. Sentire che ci si deve attivare è appunto ciò che configura l’atto etico. Così come a fare da contraltare alla pienezza dell’angoscia sta una volontaria disposizione alla leggerezza, alla speranza determinata proprio dal porsi il problema: “Quel minuto bagliore /che viene puntuale / a scandire lieve / l’avvio di giorni”.       



                                                                               Rosa Pierno

mercoledì 24 febbraio 2016

Jacques Le Goff “Il tempo continuo della storia” Laterza, 2014


Le periodizzazioni con cui si segmenta artificiosamente il passato sono la bestia nera che trasversalmente attraversa gli specifici domini del sapere. Le Goff ne fa l’oggetto di studio nel suo  saggio Il tempo continuo della storia, Laterza, 2014. In questione è la supposta necessità di effettuare una periodizzazione all’interno di un continuo, anch’esso supposto. Le Goff  afferma che la periodizzazione è necessaria, che essa, è legata alla necessità di scandire una svolta, un cambiamento che assuma un particolare valore per lo storico. Periodizzare la storia, quindi, “è un atto complesso, carico allo stesso tempo di soggettività e di sforzi volti a produrre un risultato che possa essere accettato da quante più persone è possibile”. La storia se non è un sapere scientifico è almeno un sapere razionale.

Lo storico francese descrive i due principali modelli di periodizzazione ebraico-cristiana (nell’Antico testamento e in Sant’Agostino): entrambi s’ispirano ai temi religiosi e ai cicli della natura, a cui seguono, per grandi linee, quelli di Iacopo da Varazze e di Voltaire, ma, naturalmente, Le Goff  approfondisce il problema in relazione al Medioevo, termine utilizzato per la prima volta da Petrarca per designare la “posizione intermedia fra un’antichità immaginaria e una modernità immaginata”, incarnante valori nuovi: l’Uomo con le sue virtù. Tuttavia, è stato necessario attendere il XIX secolo e il romanticismo affinché il Medioevo perdesse la sua connotazione negativa (feudalità, tempi bui, ecc.) e, con la scuola delle Annales, “assumesse i tratti di un’epoca creatrice”. Ciò per ribadire che la “periodizzazione della storia non è mai un atto neutro o innocente” e che attraverso di essa si esprime un giudizio di valore e, pertanto, essendo opera dell’uomo, con l’uomo evolve e cambia.  Ciò, naturalmente, evidenzia “la fragilità di quel particolare strumento del sapere umano”: così come anche dell’approccio tentato dal marxismo (vedente il passaggio dall’Antichità al Medioevo come passaggio dalla schiavitù al feudalesimo).

Le Goff propone una propria definizione temporale  che apre all’esistenza di un lungo Medioevo e all’inaccettabilità dell’idea di Rinascimento come periodo specifico, ove però, assieme alla visione, cambia anche la scatola degli strumenti dello storico, secondo la famosa affermazione di Deleuze, vale a dire “la trasformazione  del genere storico  da racconto ed esempio morale  a specifica branca del sapere”.  Se “si eccettua quella di un tempo ciclico, che non ha dato luogo ad alcuna teoria 'oggettiva' della storia, qualsiasi concezione del tempo è suscettibile di essere inquadrata in termini razionali e spiegata”: la verità dello storico “passa ormai dall’amministrazione della prova”, ma è anche necessario che essa entri nell’insegnamento (per la Francia, ad esempio, prima del XVII secolo non si è assistito al tentativo di attivare un insegnamento della storia, mentre in Germania la storia si è diffusa nelle Università già dal 1550 e in Inghilterra fin dal 1622).

La questione del rapporto tra Medioevo e Rinascimento, è stato affrontato dagli storici in modi estremamente differenti. Michelet  nel 1833, “tesse un elogio del Medioevo, descrivendolo come un periodo luminoso e creativo”, ma la sua tessitura è ancora un prodotto della sua immaginazione e lascerà ben presto il posto a una nuova passione: il Rinascimento, a cui l’opera di Burckhardt darà nuova linfa (La civiltà del Rinascimento in Italia, 1860) divenendo modello e fonte per la storia culturale europea. A quest’ultimo sono seguiti gli studi di P.O. Kristeller, E. Garin, E. Panofsky, J. Delumeau e numerosi altri storici, tutti passati in rassegna da Le Goff, il quale si sofferma, alfine, sulla propria posizione: il Rinascimento non rappresenta un periodo particolare, ma è l’ultima rinascita di un lungo Medioevo.

La considerazione dello storico francese riguarda la coesistenza e talvolta lo scontro “fra un lungo Medioevo, che si estende fino al Cinquecento, e un Rinascimento precoce, che si afferma fin dall’inizio del Quattrocento” il che gli consente di scolpire la seguente conclusione: “Le rotture sono rare. Il modello consueto è semmai rappresentato da mutamenti più o meno lunghi, più o meno profondi, da cambiamenti di direzione, da rinascite interne a periodi più o meno ampi”. Sennonché, insiste Le Goff, “La periodizzazione si giustifica in quanto fa della storia una scienza, senza dubbio non una scienza esatta, ma una scienza sociale che si fonda su basi oggettive, chiamate fonti”. Anche nella lunga durata definita da Braudel vi è modo di collocare periodi, ottenendo “una combinazione fra continuità e discontinuità”. Senza confondere la lunga durata e la globalizzazione, la periodizzazione si conferma come un campo d’indagine e di riflessione di fondamentale importanza per gli storici contemporanei, vero e proprio mare magnum di sperimentazioni.


                                                                               Rosa Pierno