Qualcosa esplode all’intersezione di quattro fogli di carta Amatruda, depositando un pulviscolo di pigmento acrilico nero e un nugolo di piccole macchie argentee; qualcosa che un istante prima non c’era, ma che si rivela ogni volta che si osserva l’opera, lasciando una macchia indelebile. Non vi è modo di risalire alla scala dell’evento, potrebbe essere uno di quegli accadimenti immortalati dalla macchina fotografica di un quanto di energia, mentre trasportato su grande scala equivarrebbe a una bomba di cannone su una muraglia. E in fondo per la legge analogica non vi sarebbe differenza. Cosicché salta la necessità di riferirsi a una scala nella mostra di Rosella Restante che ha titolo Latitudine. Una marca geografica, dunque, già destituita di senso, seppure appena issata. Allora non dovremmo cercare nemmeno l’esistenza di una cartografia, come motore semantico delle installazioni.
D’altronde, se gli eventi fossero quelli interiori, non sarebbe che una paradossale analogia quella che pretende di definire, nel confronto territoriale, l’interiorità come luogo. Allorquando si sia deposto questo paragone, il riguardante potrà avvedersi che il luogo interiore è privo di coordinate spazio-temporali. Per rinforzare tali concetti, si guardi al libro d’artista Latitudini (Eos Libri d’artista, 2024) che riporta due latitudini (41 48’ 0’’ N e 41 43’ 55” N), non a caso dal significato esistenziale: la località di nascita dell’artista, Guarcino (FR) e la località dove l’artista vive, Ostia. Un rimando insistito a qualcosa che vacilla, poiché siamo appunto nel cuore di un’analogia paradossale. All’interno delle pagine è presente una prima elaborazione con traiettorie procurate da graffi sulla carta, ove, nell’intersezione delle pagine, un batuffolo di candido kapok si situa al centro dell’area dispiegata, mentre nella seconda elaborazione vi è una partitura graffiata ordinata e perfettamente parallela e in cima ad essa una nuvola di kapok che non manca di aggettarvi un’ombreggiatura. Il materiale viene certamente utilizzato per la sua leggerezza, l’aerea spugnosità e il fitto incrocio di trame. È, di fatto, un volume, proietta ombre, sembra sollevarsi dal suo alloggiamento; schiacciato, ritorna alla forma primigenia, appena si aprano le pagine, nel suo stato di maggiore enfasi. È una macchina adescatrice di spazio. A dimostrazione che lo spazio viene creato. Il tempo potrebbe essere catturato dalla linearità, dallo sviluppo del processo ritmico che le linee graffiate sulla carta recano in sé. L’occhio ne segue l’andamento e riconosce il tempo.
Conoscendo da anni il lavoro di Rosella Restante, le sue installazioni che si addentrano come gangli ferrosi nello spazio reale delle sale espositive, comprendo che, ciò nonostante, debbo abbandonare l’aggancio all’inesistenza delle caratteristiche spaziali afferenti allo spazio reale. L’artista lavora come se esse fossero realmente innervate nella mente umana, come se fossero reali le solide basi precategoriali di Kant. Dunque, è necessario cercare di valutare tutti i lavori presenti nella mostra per tentare di trarne qualcosa che consenta di uscire dall’impasse. Trattasi di paradosso con cui venire a più miti consigli.
L’installazione realizzata con un tubo di cartone dipinto di nero che appare sezionato per tutta la sua lunghezza, affinché si veda l’imbottitura realizzata col kapok, è strettamente collegata all’opera in cui la partitura è creata con travi di legno a sezione quadrata dipinte di nero, discontinua in alcuni tratti, ove le masse di kapok si distribuiscono come un rampicante sulla parete della galleria e sulle barre. Le due opere contribuiscono a rendere tremuli e instabili i concetti di duro e di morbido. Di fatto la loro separazione è ineludibile, ma il fatto che esistano i concetti di realtà esterna e interna, che si abbia a che fare con la durezza del tubo e con la morbidezza del kapok, induce al ripescaggio di una medietà da non scartare. Analogicamente, ancora una volta potrebbe voler dire che aspetto esteriore (scorza, corpo, rivestimento) e materia interna (linfa, viscere, polpa) di fatto costituiscano un organismo oppure un qualsiasi corpo materiale che deve essere valutato nella sua complessità, ossia non deve essere scisso. A questo punto, è il concetto di spazio che si rovescia, che da esterno diventa interno, nello stesso modo che avviene visitando un’architettura.
Nell’opera a parete, che consta di 10 disegni, un arco, una trave posta in verticale e un arco con una trave aggettante, tutti rigorosamente neri, intersecano le partiture graffiate sulla carta, a rimarcare la visione sempre architettonica e spaziale dell’artista. Un altro splendido libro, Non ancora e già, con testo di Mimmo Grasso per le edizioni Eos, 2012, presenta nella prima pagina un cerchio stellato proiettante una sua orma striata, mentre nel secondo foglio un segno nero si assottiglia via via che procede verso il bordo in alto della pagina, gettando adeguata ombra. Tali proiezioni istituiscono un mancamento all’interno della materia stessa. La materia può svanire, ma non trascina con sé l’annullamento dello spazio.
Il colloquio tra le righe che la carta graffiata offre come struttura ordinata e l’elemento che instaura con la sua sola presenza il contraddittorio rimena, a mio avviso, nella palude delle interferenze. Quanto gli elementi dell’architettura hanno in comune con il concetto di linea retta o curva? Qui a soccorrermi è proprio il canale che l’incisione procura, giacché la carta, installata sulla parete, non si offre più come piano, ma come volume essa stessa. Pertanto è con spirito positivo, costruttivo, che Restante affronta le questioni spaziali. Lo spazio artistico è sempre costruito dall’uomo. Esattamente come quello architettonico. Siamo nell’ambito della rappresentazione e dunque della finzione, ma ivi lo spazio è ineludibile. Ecco che forse qualche dado è tratto. Non di spazio interiore, non di spazio reale, ma di spazio creativo si tratta, ossia di spazio immaginato che, quando si travasi nell’oggetto d’arte, è spazio reale per antonomasia. Se si avesse il dubbio che lo spazio interiore sia coincidente con lo spazio immaginato si cadrebbe in una risibile questione, giacché come afferma Wittgenstein, lo spazio interiore non esiste che nella convenzione della sua espressione (nel linguaggio o nell’arte). Sicché è proprio il concetto di interiorità che va eliminato. Col che si chiude il cerchio, una delle amate figure di Rosella Restante, ossia l’elaborazione artistica dello spazio è il dato più limpido che si trae dalle installazioni e dai libri d’artista, presentati come capitoli di un unico grande libro, nella mostra.
Al modo in cui una partitura struttura il suono donandogli una posizione, allo stesso modo Rosella Restante dà corpo allo spazio, lo rende una realtà esperienziale, ci dona la possibilità di sentirlo non interiormente. Di condividerlo con lei in un oggetto d’arte.
Rosa Pierno


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