venerdì 22 marzo 2024

Marco Furia “Iconiche proposte”, I Libri dell’Arca, Joker, 2024

 


Vicino alle arti visive, in particolare al gruppo di Adriano Spatola di cui condivideva l’idea di “poesia totale”, Marco Furia, dunque, non sorprende con l’uscita del suo Iconiche proposte, I libri dell’Arca, Joker, 2024, un libro-catalogo che il poeta introduce con un interessantissimo intervento, chiarendo i propri intenti artistici. In questione è la differenza tra figurazione e astrazione; entrambe acquistano una particolare prospettiva in relazione a una realtà che non scompare mai, presenza ineludibile. Lo stesso Kandinskij la includeva attraverso le sensazioni e la memoria, pur avendo come obiettivo la realizzazione di una composizione astratta mediante le forme geometriche, le macchie e i colori. Sullo stesso binario si possono collocare le opere di Marco Furia in quanto le sue composizioni trovano e rinserrano il proprio ritmo con colori primari e rette che s’incrociano, oppure con grovigli di linee; opere brillanti, in senso letterale e non, ottenute tramite elaborazioni digitali. E se, come egli scrive, per quello che riguarda il rapporto fra realtà e rappresentazione, <<i due diversi stili, pur dissimili, conservino tratti comuni tanto che, in certi casi (mi riferisco, ad esempio, a certe opere di pittori surrealisti), i loro confini si presentano labili, frammentati>>, allora si conferma che l’opera, astratta o figurativa che sia, condivide una comune origine, il dato di realtà. Tale labilità, che indica una difficoltà nell’individuare la distanza tra realtà e rappresentazione, fa cadere l’accento, una volta che il dato di realtà sia accettato come dato di partenza, sull’elaborazione operata dal soggetto. Il soggetto è, non di meno, parola da doversi afferrare con le pinze, quando si tratta di Furia, appassionato studioso di Wittgenstein e come lui convinto che l’interiorità sia quanto si configura proprio a partire dai mezzi espressivi (linguaggio, musica, arti visive).


Furia indica che attualmente è in lui più forte la tendenza verso l’espressione visiva per la necessità di operare <<un distacco, per meglio cominciare a guardare/ fare in maniera più intensa>>. E si sottolinea, qui, che la parola è astratta, rispetto al “linguaggio” delle arti visive, e ciò vale anche quando si tratti di opere visive astratte, poiché esse offrono alla vista caratteristiche che astratte non sono (la costruzione delle linee di diverso spessore, il timbro del colore, i pesi della composizione, non sono traducibili nel verbale senza perdita).


Certamente, il passaggio da verbale a visivo non è rintracciabile se non tramite una serie di metafore. Lo stesso Furia vi si cimenta, additando la necessità di un’apertura <<già sperimentata con le forme verbali>>. Si ricorda brevissimamente la sua prosa originale, al limite dell’impersonale, che racconta di gesti minimali in cui il soggetto appare sagomarsi esclusivamente grazie a una sequenza di comportamenti. Una prosa che tende a una descrizione scevra di connotazioni, ma appunto, ove l’astrazione propria del linguaggio non può essere che una similitudine lanciata come una corda su un burrone al visivo; una metafora, d’altronde, particolarmente volatile. Resta la passione in Marco Furia per la rarefazione dei mezzi, la capacità di lavorare con pochi strumenti, quasi con un abaco di forme non altrimenti riducibili. Certamente, sono espressioni riconducibili entrambe a uno stesso autore/artista e, dunque, è possibile ravvisare nelle sue diverse formulazioni una congruenza, una medesima tendenza verso l’astrazione. Interessantissimo è pertanto leggere le prose o le poesie di Furia e osservarne le opere visive, tenendo in conto questa doppia capacità espressiva per cercare di fissare tangenze e prossimità.


                                                                                                  Rosa Pierno




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