Le tre poesie inedite di Lidia Popolano, (speriamo presto di vedere pubblicata la raccolta dalla quale sono tratte) presentano paradossali cammei tratti da forme logiche e discorsive appartenenti a una dimensione quotidiana, dove, come nel caso della prima poesia, è lo specchio a fungere da alter ego. Lidia Popolano si mostra, infatti, capace di torcere le intersezioni prosastiche nel giro di un verso e ricondurle alla forma poetica, affinché l’ambiguità linguistica divenga un meraviglioso stendardo atto a guidare una lettura non prevedibile nei suoi esiti. La poesia svela così i meccanismi dell’etica, poiché se il suo peculiare oggetto, in questi tre componimenti, è il comportamento valoriale, e per questo vi si srotola il nastro del dubbio e dell’interrogazione che tali valori deve passare al vaglio, dall’altra, con estrema, franca, lucidità, è la razionalità a mostrare la sua insufficienza, messa in crisi da un compito arduo da portarsi a compimento. Il linguaggio, calibratissimo, di Popolano si compie tra slalom perigliosi: la lingua volge dal familiare all’estraneo, il ragionamento solo fuggevolmente si coniuga con l’emozione.
Tuttavia, le risposte di volta in volta accumulate collocano il sasso sul quale poggiare il passo successivo nel percorso della propria investigazione. Che ci sia un rovesciamento prospettico nella poesia Mentore, situato esattamente nel punto finale, quando la poesia termina, non deve farci credere di aver trovato alcunché. Non il senso ultimo ottenuto in maniera sorprendente. Tutto si è dipanato, si è svolto nella costruzione fin lì innalzata, dove è inevitabile ricominciare nuovamente la lettura della medesima poesia, come fosse un lavoro ogni volta da valutare e soppesare nelle sue conseguenze e implicazioni.
Soluzioni alla crisi di valori sono approntate come ipotesi solo dialogica, vale a dire come relazione tra elementi retorici nel movimento sinuoso dello sviluppo poetico. D’altronde, anche la crisi (quel disagio in cui si precisa la perdita della soglia etica) sembra avere la medesima sostanza del placebo: è un riflesso uguale a quello determinato dalla soluzione.
Esemplarmente esposta è tale tesi nella terzultima poesia Non miro a nulla, nella quale appare manifesto che è, appunto, il percorrere la cosa fondante, anziché la credenza in un raggiungibile traguardo. Se manca soluzione, non si è però sprovvisti di una produzione: quella poetica ne è testimonianza e, forse, il vero portato etico si potrebbe ritrovare nel tentativo di conoscere proprio la percorrenza da un miraggio a un altro, nella quale l’unica certezza sarà l’aver enucleato qualcosa di concreto, fra tanti riflessi e miraggi. La consapevolezza della irrimediabile complessità in cui siamo immersi.
Mentore
Non abbiamo nessuno da imitare
anzi non l’abbiamo mai avuto
siamo arrivati tardi
quando la storia aveva già stracciato
il concetto di eroe
ed è vero, sì
abbiamo fatto del nostro meglio
per costruirne uno nuovo
ma ci è venuto sghembo
irriconoscibile
una macchietta
un puzzle di eroi indefinibile
quale parte imitare di un tale esempio?
Tu imiti te stessa fino al parossismo
fino alla macchietta, appunto
ti senti sopravvivere tra quattro mura
e non ne esci
in un certo senso sei parte di me
anche se lo rifiuti
ancora mi rifiuti
ma non sai tu stessa per quanto riuscirai
già non riesci a contenere le bordate
io imito quella parte di me che più mi convince
un giorno quella che fui
l’attimo dopo quella che sarò
solo poche volte
quella che sono in quel momento
la cosa strana è che ciò
non può succedere, se non specchiandomi
in qualcuno
capisci di cosa parlo?
No, non ancora, ma capirai
specchiandoti in qualcuno
di profondamente diverso
accade di incontrarlo
in quella parte che ti somiglia o
che somiglia alla parte di te
dimenticata, o mortificata
solo così, mi capisci?
Io ne piango di commozione
lui, lo specchio, se ne nutre
di questa commozione
mi sussurra parole tenere
dice che ogni minimo suo dettaglio
mi appartiene da sempre
non sa bene quale, credo.
È proprio questa la sua bellezza
l’ignoranza dei contorni
la sfocatura del senso interiore
e io sto lì, sull’orlo della sua lira
alla scoperta della mia
rapita in un presente infinito
e assolutamente ignorante
sei anche tu sull’orlo di una lira
ma ti ostini a domarla
a definirle i contorni
vorresti mangiarla
e digerirla
nella convinzione di trattenerla
tra le viscere
non capisci che essere padrona
della malinconia del suono
non ti darà la felicità del suo possesso
ma solo la rassegnazione del trionfo
effimero
ma, cosa sto a dirtelo, questo, se ancora
non capisci che non sarò mai felice
se non lo sarai anche tu, proprio tu
sorella cattiva
che credi di odiarmi
e invece mi ami.
Il coro
Non potremo avanzare
dietro la luce dei grandi
si è allontanata irreparabilmente
non possiamo fingere che la nostra
epoca, impoverita di amore
e di aneliti autentici
possa ripararsi da sola
tra le braccia di citazioni moltiplicate all’infinito.
Le citazioni non uniscono
neanche le canzoni possono
a meno che non diventino coro
quello che ci manca è un coro
e siamo disposti a brancolare
tra le immondizie per trovarne uno
dove sussurrare le nostre aspettative
e urlare a squarciagola il dolore.
Ma i cori, si sa, non si formano
spontaneamente, piuttosto
possiamo vedere ombre pallide
avvicinarsi ad altre ombre
alla ricerca della comunione
e poi, una volta vicine
e assaporato il potere
azzannare il tenero collo
dei giovani solisti, e inermi.
Potreste provare ad aprire
le persiane al mattino
e gridare al mondo
qui si fanno cori, accorrete domani alle 18!
e vedreste la chiamata andare a vuoto
come tristi e inutili presentazioni di libri
ci vuole un’idea
ce ne vogliono tante
che corrano tra la gente
come fossero marea in arrivo
e sommergessero i piedi nudi
senza possibilità di replica
un’avanzata naturale
ci vorrebbe passione
non caparbietà
ci vorrebbe fiducia
non ricatto
ci vorrebbe ascolto
ci vorrebbe un nuovo mattino
e tu chiedi in loop
il ritorno di quello antico.
Non so darti soluzioni
so solo che bisogna vivere
come se…
disperare le attese
credere all’impossibile
adattarsi alla sconfitta
porgere il proprio spartito
alla mente sconosciuta
accettare il suo
senza sterili contestazioni
quando si canta insieme
le voci all’inizio dissonanti
si attraggono e poi
si adattano da sole
chi non sa adattarsi tace
e ascolta il miracolo
della voce dell’altro
chi non ricorda gli attacchi
si guarda intorno in cerca
di uno sguardo allusivo
di un fremito della gola
che preannunci il suono
in arrivo
bisogna essere disponibili
a cambiare solfa
e a restare soli, finché
non si trovi il coro giusto
ma, non parlando di poesia
oddio, no
forse misconoscendola
o mistificandola
la clandestinità, disperata e sincera
premia con l’amore, il tuo.
Non miro a nulla
Anche quando le nostre vite falliscono
disperate, in sterili ricerche
e in conquiste forse insensate
proprio per quello, senti
c’è sempre qualcosa che rimane
di non detto
di non raggiunto
rimangono tappe insolute
che abbiamo bisogno di
capire, esperienze non evolute
non saprei dirti
se per evolverle
sia sufficiente una vita
forse neanche tutte
ma capire è un dovere
se non ti odii, è anche un piacere.
Anche quando le nostre vite
sono perfettamente riuscite
e sincere
i figli sereni
i nipoti in arrivo per il pranzo
domenicale, tu provi una frattura
un salto epocale
una mancanza
un altrove
una colpa madornale
che ti spinge a cercare
una speranza
tendo a pensare
che sia amore
per il sapere
spinta verso l’altro da sé
verso quell’altro luogo
anelito passionale
per accoglierlo dentro
o per penetrarlo
e portarlo via con te
per abbracciarlo interamente
e teneramente
nello spazio e nel tempo
non serve intuire
quanto sia impossibile
o davvero importante
la passione in sé è imponente
il traguardo è pericoloso
nulla può lasciare indenni
non il dolore
non la felicità
i doni uccidono
o non sono perenni
giungono altre stagioni
forse la serenità
se è questo a cui miri
ma, è amicizia cosmica
non vita interiore
non quel tuo amore che
solo per qualche istante
avesti il coraggio di
lanciare nell’eternità.
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