Nel libro di Fausta Squatriti Carnazzeria. Poesie, Collages, Testuale, 2004, gli interventi critici di Gio Ferri, Milli Graffi e Angela Madesani cercano di individuare le tangenze tra le poesie e i collage che il libro espone, perché se i due linguaggi sono irriducibili, pure è solo una la mente che li pensa e d’altronde la formalizzazione poetica o visiva deve congegnare mezzi espressivi che siano di sostegno a una medesima visione.
Un libro anfibio. Un libro-cartella con la piegatura della copertina che raccoglie le quindici immagini, le quali dialogano fittamente con il testo. Sicché privilegiare una forma espressiva per spiegare l’altra non ci porterebbe che, ancora una volta, a privilegiare il verbale sul visivo. Meglio sarebbe procedere alternandoli, anche per cogliere le differenze formali. Tuttavia, quel che l’opera visiva dice, non lo dice l’opera verbale e viceversa. Bisogna forse rileggere e rivedere più volte, far levitare anche ciò che si situa fra le due modalità espressive, poiché un terzo senso si solleva, inevitabilmente, dall’accostamento delle due forme. Senza naturalmente tralasciare il contenuto che, in questo caso, è certamente drammatico. Anzi, si comprende meglio la presenza della geometria (forme astratte) che sempre impedisce la piena insuperabilità degli effetti drammatici della guerra e persino della natura umana. Una ragione può sempre mettersi all’opera, cercando il modo per uscirne. Ciò nonostante, si parte dalla mancanza di relazione tra ragione e passione, dal disequilibrio tra volontà ordinatrice e pulsioni e, nonostante il loro ineludibile fronteggiarsi, si cerca la via d’uscita, anche se la ragione sembra affondare vieppiù nelle sabbie mobili.
Il desiderio di ricreare nell’opera quelle sensazioni di simmetria, equilibrio, armonia, superiore fusione che abitano la mente prima che siano trasferite alle forme espressive, e che si possono indicare grossolanamente più o meno come valenza estetica che è attivamente implicata nella costruzione di forme, diviene non punto di passaggio obbligato, ma grado superiore di elaborazione. Elaborare esteticamente vuol dire avere già attivato l’immaginazione, unica risorsa capace di non ridurre l’essere umano alla sola caratterizzazione relativa alla sua doppia natura (avente in sé il bene e il male) ma di indirizzarlo verso una superiore visione. Risorsa che, pur priva di garanzie, si rivela quale unico viatico possibile. Ma, si badi bene, per Squatriti, estetica non coincide con eleganza, che altro non è se non un aspetto della morte, del vaneggiamento umano nel mero raggiungere lo stile: i piedi costretti in bende delle donne giapponesi, l’obesità delle donne nigeriane rimarcano l’orrore per certe pratiche in cui l’esigenza di bellezza diviene strumento di dominio e di morte. Mentre è solo l’immaginazione a rendere consapevoli che si può scorgere qualcosa oltre le contraddizioni, tutte concrete, dell’esistenza.
Si palesa profondamente motivato (non solo nel caso del presente volume, ma in tutta la ricerca dell’artista) il ricorso di Fausta Squatriti alla necessità di muoversi sui due binari formali (verbale e visivo) per affermare sia la discrasia esistente tra azioni e pensieri sia la complessità di una realtà basata su illogicità e contraddizioni. È come voler accerchiare il nemico usando tutti i mezzi a disposiIone. Il paradosso, se non lo si può risolvere, deve almeno essere visto al fine di poter mirare a un bersaglio, ove, fra l’altro, il percorso, rispetto al fine, è più del punto mirato. Lo leggiamo nei paradossi verbalmente espressi: “silenzio di gesti”, “primizia ammorba discarica”, “seminare gramigna”, “usurai angelicati”, “carestia lamenta indigestione”. Così come negli equilibri impossibili tra oggetti (teschi, cappi, mine) e figure geometriche dai contorni irregolari, che si ripercuotono nelle sue immagini.
D’altra parte, la presenza del male, che non può eradicarsi dal bene, richiede che la costruzione del verso sia effettuata con lo svuotamento di ogni definizione positiva e, allora, tutto si manifesta come macchiato; non c’è ciliegia senza verme, sì che la dizione è imperfetta, il modello è infedele, l’orma è impropria, il confine è incontinente. E nelle immagini: nulla è intero, nulla è intonso, il fiore si specchia in un drappo insanguinato, la foglia è invasa da lumache divoratrici.
Ogni atto, persino quello naturale del coito si ammanta, nell’essere umano, di sovrastrutture innaturali, al modo in cui i legami naturali si allacciano ai simboli della morte. In fondo, anche i simboli appaiono svuotati dall’interno, come “nel troppo pieno dell’otre nel vuoto di promesse”. Ed è per questa ragione che va issata la massima attenzione, che il mondo va sorvegliato, affinché nulla che sia umano debba essere creduto naturale. Ancora alla mancata funzionalità del simbolo viene affidata, nelle poesie e nei disegni, lo svuotamento del senso quando il segno di riconoscimento agisca nella mancanza di memoria. Che è quanto dire nella mancata capacità di costruire il futuro. Alcuni oggetti, nelle immagini, sono a loro volta non scioglibili dall’ambiguità percettiva. Restano come sospesi e inutilizzabili, proprio perché la cultura fornisce oggetti spuri e contaminati.
A una mancanza di linearità semantica, a una marcata complessità interpretativa, dovuta a una sintassi che trova le sue regole nell’accostamento di vocaboli anche molto distanti fra loro, si legano immagini che presentano elementi concreti e astratti in una configurazione conflittuale, tuttavia, ancora relata.
Abbiamo preferito porci fra le due forme espressive, poiché l’opera richiedeva per la sua duplice costruzione che si tenesse conto della loro natura anfibia. La loro autonomia impedisce che si possa giungere a un’esaustiva esegesi, il che è sempre vero, ma qui, è vero al quadrato.
Rosa Pierno
Nessun commento:
Posta un commento