lunedì 16 aprile 2018

Mostra “Omaggio a Diane Arbus” di Angelo Titonel presso la galleria Maja Arte Contemporanea, Roma




Dando per scontato il fatto che la pittura non è mai stata ancella della mimesi, è doppiamente sconcertante fronteggiare le opere di Angelo Titonel, poiché esse esibiscono il loro soggetto come totalmente prelevato dalla fotografia e, non è minor questione, presentano un rapporto problematico con la realtà. Non solo perché Diane Arbus ne ricercava le facce più autentiche (quasi una ricerca che scalzasse il consueto e portasse in evidenza i suoi aspetti più raccapriccianti, guadagnandone un aumento di verità, se mai fosse possibile raggiungere una verità della realtà), ma perché la realtà sta sulla tela attraverso l’elaborazione pittorica di un’elaborazione fotografica.

Ecco, dunque una rappresentazione al quadrato che si diparte da una selezione particolare del reale (non tutto, ma solo di alcuni dei suoi aspetti più stupefacenti, sorprendenti) operata dall’occhio di Diane Arbus, da cui Titonel, il quale condivide pienamente lo sguardo della fotografa statunitense, si diparte. 
Vi è pertanto la cogente necessità di chiedersi quale sia il rapporto che la pittura instauri con la fotografia. In ogni caso, si comprende subito che la realtà non è mai stata in gioco. È un dato certo, pur anche quando di essa si colgano gli aspetti deformi, non estetici, diremmo non conformi alle aspettative, quello schema consueto, cioè, che usiamo applicare per ordinarla. Vorremmo perciò provare ad addentrarci immediatamente nel pozzo che intravediamo e di cui non individuiamo il fondo.

Dando per assodati anche i rapporti tra fotografia e pittura (una fotografia che si avvicina alla pittura, quanto una pittura che la utilizza), resta esorbitante la scelta effettuata da Titonel del negativo. Tramite questa determinazione, l’artista rifocalizza tutta la nostra attenzione sulla pittura dopo averci distratto con la scelta dei temi. Lì dove per la fotografia il negativo è lo stadio intermedio della produzione relegato all’archivio, qui, in pittura, assurge a chiave dell’opera.

Andare a lavorare sul negativo è indice della necessità concettuale dell’artista di  lavorare con l’alterità: con la maniera opposta, non il retro, l’oscuro, il celato, ma ciò che evidenzia il doppio essere di ogni apparizione. Così facendo è proprio la pittura che prende la rivincita sulla fotografia in quanto immancabilmente la realtà ne risulta trasfigurata. Il rapporto con la realtà è imprendibile, indefinibile, in una sola parola totalmente inventato. E questo solo la pittura può mostrarlo.

Il negativo è anche un modo maggiormente pietoso e umano, più caldo e luminoso, che distoglie dalla capacità di riconoscere immediatamente l’individualità specifica del soggetto (come invece avviene nella fotografia). È una sorta di effetto astrattivo quello che rileviamo, osservando i quadri. Pur se i dettagli permangono e sono restituiti in maniera accurata, le opere sono quasi definibili come astratte. La scelta del blu acuisce questa distanza, trasformando e distanziando. Un’ulteriore libertà che l’artista si concede è l’eliminazione del paesaggio, al fine di non fornire informazioni che potrebbero connotare il personaggio, di non fornire appigli per una sua contestualizzazione storica o geografica. D’altra parte, anche la scala delle tonalità è reinterpretata pittoricamente, giacché, ad esempio, in “Donne di New York in abito da sera”, la resa dei colori è modificata, denunciando l’operazione come prettamente artistica.

In tal modo, le figure assurgono a simboli extratemporali, sono elevati a miti, sono personaggi provenienti da un passato culturale, non esistenziale, rispetto al quale ci sentiamo chiamati in causa come se ci trovassimo di fronte a un rebus. Pensiamo che il vero scontro, lo sforzo cognitivo che siamo  chiamati  a sostenere è di leggere la luce come ciò che tende a cancellare i dettagli e l’oscurità come ciò che ci consente invece di decifrare gli elementi della figurazione. L’inconsueto è così per Angelo Titonel, pittore, il gioco ribaltato tra luce e ombra, quel sovvertimento visivo che riscrive il mondo come sconosciuto. La realtà è messa totalmente in scacco. 

Il doppio è in questo senso non solo cifra tematica della Arbus, ma livello ulteriore, passaggio dal quale non si ritorna indietro, nelle opere di Titonel. Non è lo specchio di Alice, qui non si sfonda in un altro luogo, eccentrico, in cui vivono regole diverse (il non-compleanno, la promiscuità di genere), qui si viene estroflessi dal sé e pure dalle sue rappresentazioni più urticanti. Non c’è profondità, ma un’operazione di elevazione al quadrato.

L’effetto di spaesamento è totale non solo rispetto alla conoscenza che il pubblico ha o meno delle foto di Diane Arbus, ma anche in relazione al fatto di ritrovarsele  dinanzi ritoccate: come artefatto dell’artefatto, schemi che derivano da un ripescaggio, da un meccanismo distanziante, desunti da qualcosa di irricevibile e che pur tuttavia ci giunge. Le immagini in negativo sono maschere, simulacri da cui la realtà è totalmente sparita. Di fronte a queste opere pittoriche ci sentiamo come liberati dai meccanismi di ricezione consueti. Si viene espulsi dal noto. Si conquista pittura. 


                                                                      Rosa Pierno



La mostra è visibile dal 16 marzo al 12 maggio 2018 
presso la galleria MAC Maja Arte Contemporanea

Via di Monserrato, 30 - Roma

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