martedì 3 aprile 2018

Gli artisti fotografati nei loro studi da Roberto Pellegrini, “Ateliers” Salvioni Edizioni, 2018




Appostato nel suo studio come sulla tela di ragno che lui stesso ha provveduto a secernere, l’artista appare vieppiù immobile nel ritratto che Roberto Pellegrini a sua volta ordisce: il libro “Ateliers”, Salvioni Edizioni, 2018, ne raccoglie trentaquattro e ogni volta il nostro occhio deve cercare, letteralmente scovandolo, l’artista, impaludato nel suo habitat, costruito a sua immagine e somiglianza.

Il fotografo ticinese, il quale ha già scandagliato, in precedenti mostre, gli spazi interni attraverso le categorie dentro/fuori, pieno/vuoto, questa volta indaga sulla relazione tra lo spazio costruito e il suo costruttore. E getta una luce su tale relazione, proprio mentre più devia: accendendo le luci solo sull’artista e volutamente oscurando il suo studio. Geniale stratagemma per far emergere proprio quell’io che ogni giorno pone a se stesso il modo di evadere dal sé e dal reale per attingere la forma.

Uno studio non è solo il luogo funzionale in cui si raccolgono gli utensili, i materiali per il lavoro specifico, ma è il luogo che serve a concentrarsi, quella sorta di involucro, cavo uterino, da  cui germineranno visioni, in cui si scava il solco della propria ricerca. Il buio in cui Pellegrini affonda lo studio è solo un modo per ricreare il cavo caldo dell’interiorità creativa, mostrando la tenzone mai risolta tra interiorità ed esteriorità, fosse pure quella predisposta dallo stesso artista.

La linea di demarcazione è evidente, non richiudibile, ma val la pena di indagarla per rintracciare qualcosa di inesprimibile nella sua evidente rispondenza e per questo tanto più ineffabile. Quel che ci sta sotto gli occhi, a volte, è per questo maggiormente oscuro. Le relazioni vanno rintracciate e sono esili e flebili. Lo sguardo le coglie e le sopravanza. Le dimentica e vi ritorna. Grazie alla macchina visiva predisposta dall’artificio architettato da Pellegrini vediamo e sostiamo, ma ci sfugge la motivazione tra la presenza di oggetti e il lavoro artistico. Il rebus non va risolto, va solo assaporato.

Forzando la direzione del nostro sguardo sull’artista illuminato,  cogliamo una   innaturale condizione che, creando una frattura tra luce ed ombra, aumenta la distanza tra persona e luogo. La persona posta sotto il faro diviene emblema, non chiave per decifrare il luogo, anzi proprio la sua illuminazione ci spinge a guardare il luogo per tutta la sua estensione: siamo così portati a cercare di scoprire qualche frammento dell’identità dell’artista tramite la caratterizzazione del luogo e degli oggetti che vi si trovano, ma la macchina di Pellegrini, situata in un punto strategico ha già predisposto alcune equivalenze a cui non possiamo sfuggire e che sono quelle meno agevoli da decifrare.

In un certo senso, vediamo la persona ritratta e vediamo le opere, ma non vediamo il fotografo, a cui lo sguardo degli artisti è rivolto, anche questo costituisce una sorta di estraniante meccanismo che altera, specchiandole in reiterate traiettorie, le reali componenti in gioco. Inoltre, in questi studi, l’opera non è in bella mostra, in alcuni non è facilmente individuabile o non c’è affatto. Forse l’opera è la cosa meno importante in un atelier. Esso è la fucina delle meraviglie, l’antro dell’improbabile, il luogo costipato da cui un altro oggetto nasce inevitabilmente. L’artista, a volte seduto, rannicchiato o in piedi, creatore di ogni accadimento nella propria grotta, sottopone all’incertezza visiva del nostro rapinoso sguardo una pluralità di tracce e frammenti. Noi sappiamo che ogni atelier è un’isola dal cui incantamento non possiamo tenerci lontano e al di qua della camera fotografica di Roberto Pellegrini possiamo udire distintamente il suadente canto delle sirene.

                                                                                      Rosa Pierno



La mostra è allestita presso il Centro culturale e museo Elisarion di Minusio
dal 17 marzo al 5 maggio 2018

Gli artisti fotografati nei loro atelier sono:

Gianfredo Camesi, Colonia, Germania
Giovanni Bruno, Milano, Italia
Flavio Paolucci, Biasca, Svizzera
Antonio Lüönd, Origlio, Svizzera
Penelope Margaret Mackworth-Praed, Carona, Svizzera
Cesare Lucchini, Lugano, Svizzera
Paul Wiedmer, Civitella D’Agliano, Italia
Fabiola Quezada, Lugano, Svizzera
Marco Massimo Verzasconi, Cugnasco Svizzera
Paolo Bellini, Tremona, Svizzera
Paolo Mazzuchelli, Tegna, Svizzera
Klaus Prior, Lugano, Svizzera
Pavel Schmidt, Derendingen, Svizzera
Pierre Casè, Maggia, Svizzera
Simona Bellini, Bruzella, Svizzera
Guido Strazza, Roma, Italia
Vincenzo Montini, Sutri, Italia
Pascal Murer, Locarno, Svizzera
Francois Bonjour, Dino, Svizzera
Alex Dorici, Lugano, Svizzera
Giuseppe De Giacomi, Locarno, Svizzera
Giulia Napoleone, Carbognano, Italia
Steff Lüthi, Gordola, Svizzera
Loredana Müller, Camorino, Svizzera
Urs Dickerhof, Bienne, Svizzera
Ruedy Schwyn, Nidau, Svizzera
Paolo Di Capua, Roma, Italia
Giuseppe Abbati, Cuggiono, Italia
Nando Snozzi, Arbedo, Svizzera
Samuele Vesuvio Wiedmer, Civitella D’Agliano, Italia
Eftim Eftimovski, Maroggia, Svizzera
Fausto Tommasina, Locarno, Svizzera
Fiorenza Bassetti, Bellinzona, Svizzera

Pedro Pedrazzini, Rivapiana, Svizzera

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