mercoledì 21 febbraio 2018

Mario Fresa “Svenimenti a distanza” il melangolo, 2017





Per il solo fatto di frantumare la consequenzialità logica, non si può imputare a Mario Fresa, per suo ultimo libro di poesie e prose Svenimenti a distanza, il melangolo, 2017, la volontà di deporla, né di sostituirle altra cosa. 
Nemmeno si può affermare che vi sia una logica diversa. Forse, la potrebbe riferire a quello stato della malattia, della follia, dell’alienazione che di fatto finisce per alterare quasi completamente l’usuale quadro di riferimento. Ma con certezza possiamo asserire che qualcosa di saldo resta, che fra le maglie qualcosa passa d’integro: sono gli oggetti. Tuttavia ben presto scopriamo che tutto è animato, antropomorfizzato: la finestra ci parla, gli insetti sono “di viva, bollente calma”, come quelli di conio kafkiano, e che ogni cosa è anche meccanizzata: l’emicrania è ‘da riparare’.
L’uomo acquisisce identità soltanto assumendo quella degli oggetti o, addirittura, agendo in essi: nell’orologio si cade, si sparisce in un bicchiere d’acqua. Il soggetto dorme “come un’ombra cinese”, oppure “finge di essere un suono / interminabile” o si sente “più giardino di ieri”.

Ciò che è immanente, sebbene umanizzato, o anche distorto o deformato come sotto lente convessa, si deve misurare con un polo astratto, dove non regna minore alterazione: “una marziale grazia / nelle sue tasche azzurre”. Ciò che è intangibile, pertanto, rotea ancora attorno a ciò che è umano e ne assume il corpo, tende a sporcarsi con la materia, si colora, acquisisce un carattere eterogeneo.
Nella terza delle nove sezioni, di cui solo due in prosa, Nodo parlato, colui che parla non cambia posizione, non finge travestimento, anzi svolge il suo racconto con un linguaggio comune, senza fratture: “Dice di sì: gli ho ripetuto lentamente la notizia, / per non fargli del male”. Ma forse lo scambio è già avvenuto, e non di poco peso, quello tra vivi e morti. Le esistenze sono interscambiabili lungo l’asse temporale: la storia, quella tragica, si conficca nelle carni delle vicende quotidiane, quasi un orrore nell’orrore.

Poi gli ha gridato: prendetelo e marchiatelo
col ferro rovente! E quei tre non si parlano nemmeno:
il borioso compagno, allora, ci viene tutto addosso:
e ha gli artigli protesi, e poi si arrabbia perché
si è accorto che ha il nome uguale al mio. 

Fra memorie disseppellite e verità sotterrate, la spola che interpola l’una e l’altra sfera è la lingua, la diversificata modalità che il linguaggio concede per parlare dell’effrazione dei mondi. Al contempo, l’effrazione delle regole induce immediatamente al riso. Così i dialoghi inefficaci, quasi tra sordi, poiché la malattia altera la materia del contendere, innalzando una barricata non superabile, sono spesso pronunciati da persone che ridono, sorridono. Vi è il senso di una paradossale comicità, la quale evidenzia una tendenza alla constatazione di un’autentica, irrisolvibile disfatta, e di un precipitare inarrestabile nell’insensato.
 “L’importante è – sempre ridendo – vincere questa apatia: / e allora ci divertiamo ad osservare il corpo accartocciato / sulla parete,”
Oltre al gusto del ridere, vi è anche il gusto di “essere la cosa giusta, / ma al posto sbagliato”. Il “romanzo malattia” consente la sostituzione di una cosa con un’altra: esso  incita alla decifrazione, costringe a cercare una continuità impossibile perché vi convergono storie irriducibili una all’altra, eppure compresenti: “e se questa è una finzione, sta’ sicuro / che ben presto ci guarirà”.
Medusa della specie è la quarta sezione, dove si infittiscono vieppiù i riferimenti a La Montagna Incantata di Mann. Comprendiamo che la parola ancor prima che frutto di esperienze è - per la sua impossibilità di essere slegata dal senso, dal contesto, dalla polisemia - prima di tutto memoria, ricordo di ciò che è stato letto, ascoltato.
Con la parola si narra ciò che è stato già narrato, forse non altro, quando poi vi sia come dichiarato il rifiuto di percorrere le proprie trame, una nuova tessitura. In ciò troviamo forse, più che la fine della letteratura, la sua elevazione all’ennesima potenza: che importa raccontare il nuovo,  quando leibnizianamente possiamo ritessere un libro con vecchie parole e trascorrere dalla vita alla morte e viceversa. 
A riprova, la presenza di un Bugiardino. Note e istruzioni per l’uso, in coda al libro, il quale indica alcuni stimoli che Fresa ha colto, dati di partenza, prelievi, i quali indicano un punto della rete da cui è partito per scrivere: l’occasionalità mostra anche l’intercambiabilità degli stessi. Non importa dil luogo di partenza: a qualcosa si approda: l’avvenuta tessitura della pagina. 
Tutta la letteratura è convocata, dai gironi alle api, dai banchi disastri che a noi fanno vedere in mente Melville ai personaggi delle favole (in Galateo per un abisso), mai lontano Carroll. Ecco, ancora, il ritornante sorriso, la necessità del ridere, che è come un segnale disseminato lungo le pagine di questa silloge per avvertirci a ogni svolta che è nel mondo dell’artificio che siamo caduti e che in quel luogo anche la malattia non è vera malattia, ma fuga della mente: “il mare aperto fuori, / e risa violentissime che generano insieme / dolci segreti di vanità”.

                                                                                        Rosa Pierno

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