sabato 10 novembre 2018

Marco Ercolani, dalla sezione “Cielo minore”, raccolta inedita





Le tre poesie inedite di Marco Ercolani, qui presentate, mostrano una particolare struttura che fa perno sulla negazione, sulla volontà di non ripetere la medesima azione, di non commettere lo stesso errore, sulla sostituzione. Può Ulisse decidere di cambiare il corso della sua narrazione? Eppure, deve poterlo fare proprio perché essa é già avvenuta, ed egli ha già visto i danni prodotti dalle precedenti scelte. La volontà diviene il punto di forza sul quale il pensiero può assumere la posizione avversa. Per far questo non deve, d’altronde, nemmeno cambiare la sua natura: come il polpo, infatti, che è l’animale metamorfico per eccellenza, simbolo stesso di Ulisse. Simbolo, cioè, di quell’intelligenza tutta pratica che ha fatto di lui un eroe unico nel suo genere, così come magistralmente analizzato da Vernant. Ecco in quale modo il ‘non’ si volge in un “profumo / di cose imminenti”.
Una poesia che presenta anche formulazioni di tipo imperativo: “Ma tu non scendere”. L’analogia con la struttura delle favole galvanizza la nostra memoria, ci avvisa che nella maggior parte dei casi le avvertenze non saranno tenute in conto. O forse è nell’ordine naturale delle cose contravvenire persino alle evidenze. La realtà si sgretola in mille frane, si replica e si rifrange su superfici riflettenti. Come può ritenersi fondante qualcosa che ha nella sua natura la mutevolezza? Come scorgerci finiti, con la moltitudine di domande inevase che accumuliamo e le cui eventuali risposte con collimano con le altre. Il finito esiste accanto all’indefinito e non c’è un superiore piano di unione.
Anche con la seconda poesia il sapore persistente è quello della favola. Situazioni paradigmatiche esotiche, lussureggianti, come le piume  ‘sgargianti’ dei pavoni in un pozzo. E l’ammonimento è quello di adeguarsi agli aspetti del visibile e della bellezza, rispettando ciò che esiste, accostandosi con rispetto a ciò che é diverso, fino all’assimilazione con l’apparente, come accertiamo nell’ultima delle tre poesie, in cui anche la presenza dell’uomo influisce comunque in un ambiente che era stato definito estraneo. La metamorfosi non ha limiti nel suo potere.


Sono e saranno sempre pietre, 
nonostante le circondi l’acqua. 
Ma questa volta non si addormenterà. 
Porterà in salvo i suoi compagni
Nessuna bonaccia a illuderlo, nessuna tempesta a tradirlo. 
Nessun Ciclope, nessuna Circe. 
Non si sveglierà 
per vederli annegati fra sassi e nave
dopo aver sognato che sarebbero approdati a Itaca 
con i venti propizi. 
Stanotte non dormirà. Stanotte 
li salverà uno per uno: 
sono ancora lì, giovani e vivi, accanto a lui. 
Poi ripartirà vecchio, morta Penelope, 
il remo appoggiato alla schiena, solo. 
Nella nuova terra quel remo sarà 
una pala con cui battere il grano,
non gabbiani e sirene,  
ma una piatta pala di legno,
nell’aria l’incomprensibile profumo 
di cose imminenti. 

**

Qui c’è un libro da ricucire.
Le pagine sfuggono, volano via.
Ma forse non sei tu il prescelto,
se non riesci a trovare l’architettura. 

I pavoni, in fondo al pozzo,
code verde smeraldo, piume sgargianti.
Ma tu non scendere, rispetta la bellezza.
Aspetta siano loro 
a lasciare il nero.

**

Un confine. Non sai
quale. Quella calma
assoluta. Alcune epigrafi. Rocce
da varcare.
E niente che ci sia modello,
niente che ci guardi.

Solo specchi.
E noi, nudi.

Non dovrebbe fermarsi la luce
ma venti felici si bloccano in stalattiti.

Noi siamo
quei nodi.





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