venerdì 14 dicembre 2018

Ranieri Teti su Vito M. Bonito, fabula rasa. Oèdipus 2018





La veste editoriale ci consegna un’opera poetica che non contiene pre/postfazioni. Non è una novità per questa collana, “Croma K” curata da Ivan Schiavone, ma nel panorama della poesia contemporanea rimane un tratto da rimarcare, un’emancipazione.
Da evidenziare è l’uscita del nuovo libro di Vito M. Bonito, tre anni dopo “Soffiati via”.
Tre anni sono stati il tempo necessario per distillare queste parole cresciute intorno alla nascita della bambina bianca, che di fatto innerva tutto il testo. Da una genesi a un’estinzione, che avviene nel fumo, nella nebbia, nel fuoco “che solo m’affina”: una nuova vita sembra portare al termine una vita precedente, in un passaggio che la scrittura di Bonito racconta come un superiore atto d’amore. 
Questa fabula, nel suo narrato, rimuove stereotipi. Decolora l’innocenza. Osserva qualcosa che si muove sotto la superficie di un ipotetico giardino d’infanzia, descrive l’espandersi in questo terreno di una radice sotterranea, lo fa con le innumerevoli possibilità della poesia, dell’esperienza (“la felicità resta l’inganno supremo / il fondamento dell’usura”) e della conoscenza. 
La bambina bianca entra nel testo in corsivo, con un delicato “toc toc”, e collabora a una poesia che spesso diventa dialogica, nell’alternanza delle voci. 
Dal “buio del creato” nasce quest’opera complessa e caratterizzata, proprio perché così deve essere data l’idea generativa, dalla prevalenza di un versificare breve, da rime e assonanze che ci sono offerte dalla coppia padre-figlia, a tratti cantilenante. È come se via via, pagina dopo pagina, le dolcezze, la consapevolezza della perdita e del dolore (“la luce è perfetta / inizi il dolore”), compresi i ricordi più ilari - straordinario quello della lavatrice - fossero affidate al paterno, mentre le durezze fossero tutte caricate nelle parole del filiale: “padre ‘sto cazzo / caro papà”, oppure “per te / ho apparecchiato / l’inferno”, cui il genitore idealmente risponde qualche pagina più in là, alla fine, “o mia pèue ti temo / sei fata morgana / di una mente allo stremo”. Pèue, scrive Bonito nell’aletta, è il senhal della bambina bianca, il suo nome-suono prenatale, pregrammaticale.        
Lo sdoppiarsi dell’autore, in questa prova divisa in due voci così differenti per temi ma del tutto unitarie per stile e tono complessivo, tra “respiri e smarrimenti” produce effetti testuali inediti: il libro ridefinisce una parte centrale di mondo, la rinomina come prima non era stato fatto. 
Teneramente spietata, “fabula rasa” ha una grandezza che ammalia, che invita a ritornare sui testi.

                                                                           Ranieri Teti



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