A partire da personaggi, scenografie, tempi e luoghi, oggetti e concetti che si passano la staffetta da un libro all’altro, Ida Travi mostra una capacità straordinaria di innestarvi sfondi filosofici, prospettive di senso e approfondimenti inusuali aventi una fissità che si mostra come varietà e varietà in continua metamorfosi: caratteristiche che rendono la poetessa bresciana una figura cardine nell’arco temporale che la presente antologia esplora.
Tali elementi sono immersi all’interno di una cornice atemporale, come accade nel suo ultimo libro di poesie Katrin. Saluti dalla casa di nessuno, Moretti & Vitali, Bergamo, 2013. Ciò non vuol dire necessariamente estrarli dalla storia, visto che c’è un’origine, un percorso, un agognato traguardo, anche se, nella scena cinematografica costruita dalla Travi, il paesaggio e gli attanti hanno consistenza solo mentale: paiono più un simbolo, che un referente concreto. A riscontro, si osservi come il corvo volando percorra una ruota e la neve stia per il nulla. Quest’ultima, convocata assieme alla sua negazione (ciò che è nero), appartiene a un ciclo: diviene acqua e nutre la pianta. Neve personificata, recuperante il suo senso all’interno di una filastrocca, scandita da un tempo ciclico o lineare. La continuità della filastrocca trova una sua ideale rappresentazione nella “continuità” esplicitata tramite l’analogo “divenire” della cultura orientale, ove ogni cosa è plurima, non separabile dalle altre, anche quando è difficilmente riconoscibile e collegabile. Si prenda come esempio la culla da cui tutto origina: punto di passaggio dall’indistinto al differenziato: il passaggio non è occluso, accoglie il moto della spola poetica. Nel tessuto sono comprese le poetiche lacune in cui il silenzio si annida come per sostenere, quasi dare corpo, all’impalcatura del dire poetico.
Abbiamo incontrato in Poetica del basso continuo, Moretti & Vitali, Bergamo, 2015 il riferimento al cinema di Godard, in particolare ai suoi cartelli scritti al posto delle parole oppure accanto alle parole pronunciate, a cui la poetessa affida lo snodo centrale della sua poetica: la problematicità del linguaggio che si snoda senza mai risolversi tra oralità e scrittura, tra silenzio ed espressione profetica, tra svelamento e nascondimento. Linguaggio, dunque, come cosa da fare e come alter ego del silenzio, come corpo (la scrittura) e come suono. E questi snodi (che segnano discontinuità che non comporta soluzione di continuità) equivalgono, dal punto di vista testuale, a sequenze filmiche, sia a livello di singola poesia all’interno del libro sia fra i libri tutti della Travi, delineando una serie che può essere permutabile all’infinito e dove la parola letteralmente viene estratta a forza dal silenzio imperante.
Non bisogna, pertanto, accordare troppo credito al dialogo - quasi un monologo - che la protagonista arma intorno agli altri personaggi: le esortazioni morali, le prescrizioni, i consigli, i divieti, sono quasi una rete che imbriglia i movimenti, che chiude nel bozzolo l’io. Come ho rilevato in una precedente nota critica per Il mio nome è Inna, Moretti & Vitali, 2012, si salta la frattura solo con gli occhi chiusi, solo dimenticando ciò che si sa e persino le profezie di cui il testo è disseminato. A tutto togliendo credito, a ogni cosa credendo. Ansie, paure, speranze, illusioni sono in tal senso, un puro portato del linguaggio per Ida Travi, la quale ne denuncia i limiti, la forma ineludibile, se non in senso paradossale. Sfuggire è approfondire, ripetere fino allo stremo delle forze, fino al punto in cui l’inanità del dire si salda con il pre-linguistico, quel luogo mentale di cui ella stessa ha parlato così diffusamente nel saggio L’aspetto orale della poesia, Moretti & Vitali, Bergamo, 2000. D’altra parte, quanto di ciò che è rappresentato sulla pagina è concreto se passa per il linguaggio? O il concreto è solo il luogo delle cose rappresentate? La favola sarebbe per questo il luogo più familiare che possiamo abitare: non tanto la terra, dunque, quanto il mondo ricreato con i frammenti della cultura tutta: l’armamentario è dei più vari: “chi mi aiuterà? Chi / mi assegnerà il perdono? / Quel ciliegio laggiù, lo vedi? / quello è il ciliegio della nostra clausura / Valgono seimila stelle, le mani riposanti / valgono seimila anni luce” (da Katrin. Saluti dalla casa di nessuno, Moretti & Vitali, 2013).
Nessuna soluzione possibile se non la raggiunta consapevolezza dei mezzi. O la favolosa metamorfosi in oggetti: “Quand’ero un albero / non soffrivo così”. Richiamo alla metempsicosi, ma di stampo occidentale, nel solco di un trasformismo tutto teatrale: ogni cosa non è che rappresentazione, ma convocata nell’accezione del suo valore più pieno, sostanziale, essenziale. Frutto di quell’immaginazione che, di fatto, replica il mondo, che lo rende usufruibile, una volta che si sia entrati nella sfera dell’uso del linguaggio: “Finiranno nel secchio, puoi giurarci / finiranno nel secchio d’inchiostro / le abitanti della tua volontà”.
Il ruolo del simbolo merita un discorso a parte, è qualcosa che sta fra immagine e concetto, territorio intermedio, arbitrario, del tutto dipendente dai sistemi culturali che attraversiamo. Non c’è una verità fissa, immobile, fondata. Ci sono, però, oggetti speciali, fondamentali per la macchina testuale di Ida Travi, fabbricatrice di mondi dismessi. Anzi il vero pericolo, sempre in agguato, è la possibilità che anche questa creazione si fratturi e il vero invada come pece nera la teatrale scena, il mondo così faticosamente costruito e innalzato: meravigliosa torre di Babele, mistero privo di fondo, apparizione enigmatica solo per chi ignori i meccanismi tutti umani della sua istituzione.
Anche per la Travi, si configura la preminenza del valore della poesia di marca aristotelica, la sua preponderante capacità catartica e, diremmo, salvifica: che faremmo, infatti, in un mondo privo di linguaggio? Persino il balbettio originario perirebbe se fosse inficiato dalla perdita del linguaggio articolato. Così non bisogna credere che la preferenza della poetessa per l’oralità sia una preferenza a spese del linguaggio (oltretutto lei del linguaggio ordinario fa un tale uso che ordinario più non appare, parendo anzi quasi una fola l’asserire che l’ordinario esista). Ne L’aspetto orale della poesia, infatti, è più volte specificata la separazione che l’introduzione della scrittura ha creato nell’antica cultura greca, ma, appunto, per ribadire la superiorità poetica rispetto a una differenziazione che tocca la aree del giuridico, dello scientifico, del filosofico.
Parrebbe sussistere lo scarto, quasi un mondo perso, da riattivare, fra attuale e remoto: quella fra la meravigliosa infanzia e la condizione adulta: “l’antica melodia / adesso non canta più / Come saranno i meli in fiore, adesso / chi lo solleva il cesto delle rose?” (Da Katrin. Saluti dalla casa di nessuno, Moretti & Vitali, 2013), ma non bisogna cadere nella proiettata frattura, partecipando senza remore al gioco che tutto riattiva e rinvia: il linguaggio medesimo. Se le cose tacciono, se non riescono a essere più simbolo di alcuna cosa, il linguaggio s’incarica, comunque, di inserirle nella scena e di segnare con le parole gli oggetti, di tracciare il posto che le presenze occupavano, di essere il cartellino con cui segnalare l’assenza e non è cosa da poco. Si accetti, dunque, il valore di una poesia che si vuole simulacro di ex-entità. Di sperimentate presenze, di tempi fluenti, di metamorfosi continue. Il linguaggio non è travestimento, è qualcosa che sta per qualcos’altro, quando questo qualcos’altro non è ricreabile che, appunto, col linguaggio, come avevo già segnalato per Tà. Poesie dello spiraglio e della neve” Moretti & Vitali, 2011: non sarà infatti proprio la capacità della poesia a donare la possibilità di non essere banali, di non abituarsi a nulla, di non accettare niente come dato e tutto ricreare? Non è che retorica domanda. Parola è trappola e liberazione insieme.
I versi risentono di una difficoltà emotiva, di un disagio. La perdita è cocente e in qualche modo non colmabile. Non c’è felicità, ma è presente il gesto che cura. L’attenzione è alla memoria, al culto, a una sacralità che si serve per essere esercitata di secchi e catini, grembiuli e fiori di ciliegio, pettini e colonne, rastrelli e cancelli, mentre nuvole scorrono come un nastro nel cielo, convocando in scena anche la meraviglia. E’ un mondo non privo di squarci, aperture improvvise come l’al di là dello specchio di Alice. Certo, un conflitto tra atemporale e storia sussiste, ma è come il cambio di una lente focale, si mette a fuoco un diverso livello per volta, mentre il resto è sfocato. E, allo stesso modo, il mondo intatto, senza colpa e senza macchia, sussiste accanto a quello tarlato, minato dal male. Anche se a volte vacilla la fede in ciò che è fermo e immacolato e pare di essere intrappolati soltanto nel mondo dell’angoscia: “Qui nessuno rende conto a Dio? / Ci dev’essere un vasetto, una pomata / Ci dev’essere una pianta curativa / da qualche parte”. (Da Katrin. Saluti dalla casa di nessuno, Moretti &Vitali, 2013). La mancanza di senso non è solo in agguato, è nell’arena: bisogna fronteggiarla. La foglia verde è il contrario della polvere.
Nel testo è anche la consapevolezza di passare per la strada già esplorata da Beckett: l’attesa determinata dall’illusione, qui oramai svelata, sorta di ferro vecchio (rimarcato da” Quel che ha pensato il filosofo posso pensarlo anch’io”.) Né i rimedi messi in atto nel testo dalla Travi subiranno miglior destino (anche se persino passare in rassegna le illusioni, le favole ha in sé qualcosa di salvifico). Le cose di allora non sono le medesime di oggi: e solo il pettine starà per la casa, sito che si è perduto. La strada sarà stata, intanto, percorsa. E’ solo questione di tempo e non importa di quale tipo di tempo si tratti. Ci sarà in ogni caso continuità tra il tempo prima della nascita e quella dopo la morte: sorta di torsione, non d’interruzione. Il tutto comprende la casa e la mancanza della casa. Ma, a tratti, sembra essere solo un’interruzione visiva, un pallore delle cose, uno schermo che si frappone tra noi, la nostra interiorità e gli oggetti con i quali questa interiorità abbiamo costruito.
Rosa Pierno
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