Modellare, dare forma, sono azioni, ma l'oggetto che le subisce è l'io. È un io che però resiste, ostacola la neo-formazione del sé: "non sa farsi materia", non è duttile, si crepa, fino a frangersi, tale urto conservandolo nella viva carne. Ogni respingimento è un'impronta che lo mette a nudo, svelandone la fragilità, tuttavia non fuoriesce sangue. Eppure, come non vedere che la forma crepata, fessurata è quasi assimilata a un oggetto artistico, e che se non equivale a una mera estetizzazione del soggetto, si pone, rispetto alla realtà, in ogni caso come un oggetto prodotto. Che non vi sia estetizzazione del soggetto è dato dal fatto che egli è assente e che, frattanto, tutta l'operazione è avvenuta tramite linguaggio e solo nel linguaggio. Lungi, quindi, da quella corrente che vede nel linguaggio l'unica realtà, Laura Caccia disegna un essere che è imprendibile sia con i lacciuoli linguistici sia con quelli artistici. Con l'addentrarci nella lettura delle tre poesie inedite, tratte da " Crepe", vediamo che assedi e agguati, stermini e presagi di lutto si verificano tra forme inservibili e scorie: siamo nel regno dell'inanimato e non vi è "neppure nell'aria / un consenso tra cose complici" a negare, appunto, la possibilità di convocare effettivamente sulla pagina ciò che è umano. I calchi, manichini di calce viva - unica possibilità di rinvenire ciò che ricorda il vivente - sono sparsi in un paesaggio a sua volta formato da materie frante. Tutto ciò che appartiene all'esistere si è tramutato in cocci. Il luogo d'esercizio del soggetto - la sua coscienza - è una sorta di laboratorio disatteso ove la pelle è diventata greto, la materia maceria, mentre i guadi sono ostruiti e la luce concorre a disseccare ancor di più il prosciugato paesaggio. L'essere resta totalmente fuori dal linguaggio, quest'ultimo non è in grado che di afferrarne un franto calco.
(sedimenti)
non sa farsi materia
nei crateri dell’aria tra i detriti
rimasti sulla soglia
l’impasto che accoglie tra le mani
cumuli di spartiti
nel rovescio delle cose
sedimenti ogni impronta a nudo
dentro il suo calco inaspettato
il rimosso di crepe un crepitare
muto di ombre
dove si accalca
la realtà affonda i suoi copioni
nel magma informe
da cui straripa assente da sé
riversata nei nomi
(crete crepe)
come se tutto
si facesse anonimo le piazze gli episodi
in odore di crete crepe d’ombre
al suo esordio il finito
a fuoco di stragi al rallentatore
tra stermini presagi lutti a nidiate
la nostra parte
di folla in agguato tra gli assedi
e quel che affiora
in questo scavo profano
in scorie d’anime così da rendere
grumi di scena a ritroso
neppure nell’aria
un consenso tra le cose complici
al minimo indizio prezioso
(la tela mancina)
in cerca di inizi nel vacillare
reciproco non la pietà convinta
d’oscuro al guado
delle sue controfigure
tra le promesse che rivolge muta
a ogni senso la tela
mancina
il movimento in prima battuta
è maceria materia
di fragilità su cui si appanna il respiro
rientrando
dalle impronte al greto della pelle
a calce viva in ogni sbavatura
di buio tra le screpolature
del colore
prima che la luce asciughi
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