martedì 1 novembre 2016

Gilberto Isella su “Veramente, quando” di Augusto Blotto





 Guardato da anni con un certo sospetto dalla critica accademica (fa eccezione Stefano Agosti, il suo estimatore più qualificato) il poeta torinese Augusto Blotto (1933) merita quell’attenzione che si deve a ogni progettualità poetica costruita sulla ‘differenza’ espressiva e sulla radicalità del linguaggio. Nel solco di Amelia Rosselli,  Edoardo Cacciatore o Emilio Villa, tanto per intenderci: figure né apocalittiche né  avanguardistiche, solo spiriti liberi posseduti dal demone della scrittura. Scrittura che non fa concessioni all’immediatezza comunicativa,  avventura della parola tesa a indagare l’indicibilità su cui il cosiddetto dicibile è fondato.  Veramente, quando (a cura di Gilberto Isella, ADV, Lugano, 2016), una  raccolta scritta tra il 1966 e il 67 e solo ora data alle stampe, s’inserisce in un corpus fluviale e in continua espansione: 25 volumi editi e 29 disponibili in rete. “Il poeta italiano più prolifico del suo tempo e forse della storia italiana”, ha scritto Philippe Di Meo.

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  La poesia di Blotto, antimimetica per vocazione, vive, attraverso l’esperienza dell’horror vacui, l’incanto di una durata. Sperimenta, ulissicamente,  la sfida a ogni limite del dire, immaginario e/o epistemico. Il suo tema esplicito è il viaggio –  annotazioni di date e toponimi ne delimitano ipotetiche sequenze, con effetti paradossali di realismo autobiografico – seppur col presupposto che ogni partenza racchiude un ossimoro, il “clamoroso non incominciar neppure”, e che ogni transito corrisponde a “questo lupo di velluto dell’esser fermi”. Viaggio oltre la fattualità dunque, viaggio nei recessi più problematici dell’agire conoscitivo:

Il conoscere parte dai piccoli aggeggi,
prove accorate di modesto dimostrano,
e si unì a una ripetizione, a renderci adatti
a vivere con lo sgretolìo pedagogico
che è un pensare al nascere, non dico al cognome
che porto e porteranno, ma al modo di usare il procedere
che imparò a gradi e, già adulto, vedeva,
in quegli anni, davanti a sé una zona turbolentetta
che non vedeva, v’era una piega, il taglino
robusto del “non prima di allora, e sarà
tra poco”

   Qui abbiamo solo parvenze di metadiscorso: labile sovrastruttura subito metabolizzata e resa ‘altra’ da aporie dove l’indecidibilità dei pòroi - passaggi o sbocchi inerenti all’ordine scrittorio – tracciano le coordinate, in realtà scoordinatrici, di un senso in continuo differimento.  Il senso, appunto, quale improbabile punto di convergenza di stringhe inconcluse, realizzate dai “piccoli aggeggi” del verbalizzare. E se l’agire pedagogico  (“sgretolìo”) consiste in un faticoso e forse poco remunerativo “modo di usare il procedere”, lo dobbiamo al fatto che è proprio l’esperienza del pro-cedere entro uno spaziotempo di segno caotico e anomico a venir messa in causa. Spazio e tempo, svincolati da ogni norma aristotelica, sembrano decostruirsi di fronte a tale o talaltra “zona turbolentetta”: zona turbata e tendenzialmente lenta, secondo quel fecondo impiego di parole-macedonia che rappresenta un tratto distintivo dello stile blottiano. Custodendo nel loro processo iterativo memoria e oblio, oltre al pathos ondivago dell’interiorità, zone del genere segnalano pieghe, punti di svolta, invisibili tagli inferti a questo singolare universo. Quanto al soggetto, è l’occasione del suo autosospendersi, lasciando fluttuare in una sorta di “vento medio” la  nozione del tempo:

Felice come l’uomo si toglie, per essersi
riconosciuto, sono in orecchia
fiamma di vento medio; e non so andar più piano
di questo capir se è ora o prima; i giorni,
i giorni miei in spasimo di gradino

*

  E i luoghi? I luoghi vanno dislocati, mimetizzati sotto la veste ‘arcimboldesca’ della scrittura: la lettera come abito-idioma del soggetto. Autarchica-autistica dovrà perciò risultare l’esplorazione dell’esistente, all’insegna di una privata geosofia (“per essere io presso/ al mio vestito”) dove la distinzione tra qui e là, prima e poi, stasi e movimento, natura e artificio, avrà scarse probabilità di sussistere. È quando la trans-realtà  – che accoglie unicamente percezioni fantasmatiche del presunto reale, inaccessibile in sé – si fa strada, supportata dal vertiginoso e barocco rimbalzare della parola da un’isotopia semantica all’altra,  agitando “elenchi” aleatori, immaginarie “carte da gioco”.

Poiché far un po’ di strada confusa,
fra noi, è un disporre elenchi
leccati, tipo le carte da gioco, in questi
paesi che è le soste, nel comporre,
acerbe, cattive, tutto un saperci, con gomiti
sbussolati a conoscer l’aerea carne o curva,
il salato zenzero che attacchella brioche
sfumata alle spatole del pensar d’esser qui e restarvi.

   Babele canta, per il tramite di questa “aerea carne”. Ci si sta avvicinando, suppongo, ai confini dell’ordine simbolico. Sovvertire quell’ordine è faccenda di hybris, e Blotto lo ammette a più riprese, ad esempio in un testo risalente al 1963: “Quasi/ avventare di flagri, il pensare, il troppo”. O in un componimento anteriore, del 1958 (Analizzare le località), dove non lasciava indifferenti lo iato tra “Analizzare le località, possibilità apertissime/ di scegliere coincidenze”, da una parte, e “impraticabilità e campibilità sovrumana/ topografica, come la cervice/ fragile, vermiglia”, dall’altra. E tuttavia l’impraticabile è e sarà sempre oggetto di una sfida che compete al poeta, al poeta come operatore del rischio e della vertigine, come diabolico agrimensore attratto dal potenziale buco nero in cui ogni luogo consiste. Buco nero e allo stesso tempo, per paradosso, grembo innominabile dove si annida uno spirito vitale? Così Blotto in un precoce scritto del 1953, alludendo all’archetipo dell’uovo cosmico: “Il paesaggio d’inverno ha il tuorlo intimo/ del sole che coagulato risale”.

*

  Nel genotesto di Veramente quando, Blotto inscrive i contrassegni di un Lucrezio postmoderno. Di un poeta, cioè, che ‘bada’ al mondo in quanto physis e semêion, che ne osserva sbalordito l’incerto e contraddittorio formularsi tra una materica, pulviscolare o ‘aghiforme’ ridda di particelle e un ordine geometrico consegnato al sapere delle planimetrie, “crudeli quel tantino”. Tra i due poli, forse, si apre l’interstizio provvidenziale che consente di udire la voce dell’Essere:

Terra coi numeri che la distinguono, oggi
successivi e componenti: dei tocchi della polvere
s’accetti il dirigersi, il mondo rettilineo,
aghetti mosci in cielo all’atto del vederlo
odorano di come è la spalliera, o attraversata,
di terra di nocciola l’incontrar, salto
annoverato: purché stiamo a badare.

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