martedì 25 giugno 2013

BIENNALE d’ARTE di VENEZIA 2013. Una felice novità?


Nell’ultimo decennio – salvi com’è naturale alcuni rari autori e non molte opere o installazioni – le Biennali Veneziane si sono caratterizzate per disordine, noia, stanchezza  - riferita quest’ultima alla modesta ed epigona creatività, e all’esaurimento letteralmente fisico (e intellettuale!?) dei visitatori, lungo gli infiniti spazi ai Giardini, all’Arsenale e in giro per Venezia, isole comprese.

Quest’anno una idea indubbiamente originale, realizzata dal Presidente Paolo Baratta e dal Curatore Generale Massimiliano Gioni, ha sollecitato l’attenzione dei numerosissimi visitatori all’inaugurazione e nei giorni immediatamente successivi. Si è voluto ricreare il Palazzo Enciclopedico (che può richiamare per esempio la biblioteca infinita di Borges, o il barocco Teatro del Mondo). Per riferire in breve di cosa si tratti possiamo parafrasare l’introduzione, in Catalogo, di Massimiliano Gioni: nel 1955 l’artista autodidatta italo-americano Marino Auriti registrava presso l’ufficio brevetti statunitense i progetti per un Palazzo Enciclopedico. Un museo che avrebbe dovuto ospitare le opere della creatività artistica e scientifica dell’uomo dalle origini al secolo XX. Il Palazzo (realizzato in modello e, com’è comprensibile, mai edificato) misurava 136 piani, per settecento metri di altezza, e occupava più di sedici isolati di Washington. Impresa incompiuta, ma, come osserva Gioni, indicativa di «un sogno di conoscenza universale e totalizzante» che percorre la storia e le opere di artisti, filosofi, scienziati e profeti, i quali sempre cercano –  per verità invano – di costruire una immagine del mondo che ne sintetizzi l’infinita varietà e ricchezza.

L’utopica idea di questa… Utopia soddisfa comunque due fondamentali esigenze trascurate appunto dalle più recenti Biennali: la necessità di presentare le innumerevoli opere esposte secondo un ordine storico-critico – di contro al disordine di una dilettantesca confusione propagandata per rivoluzione – e, ancora, la volontà di una ricerca delle ragioni intime (congenite?) dell’arte dei nostri giorni che – non sempre s’è voluto capire – non nasce certo dal nulla.  Ma non si tratta di rivalutare una o più tradizioni secondo pretese museografiche-conservative, bensì di percorrere con la ‘follia’ della creatività la vicenda del segno quale traccia indelebile (anche perché trasmissibile geneticamente) di quella che, particolarmente in arte, potremmo definire la tendenza  plasmante della materia, come metamorfosi non solo concettuale, ma tout-court fisica. Perciò umanissima.

La prima opera che incontriamo è Il libro rosso (1914-1930) di Carl Gustav Jung, nel quale con testi teorici e contorti disegni, talvolta, barocchi e mostruosi, (si scopre che Jung era uno straordinario disegnatore di visionarie fantasie oniriche) in quindici anni ha rappresentato visivamente la vicenda universale dell’inconscio  collettivo.  Così (ma facciamo pochi esempi) in merito ad opere ‘antiche’ e insieme primigenie troviamo del 1915 i geometrici mappamondi della svedese Hilma of Klint; gli antichi dipinti tantrici di autori anonimi indiani; le performances “le mani che cantano” del russo Victor Alimppiev (2012); l’opera della surrealista Dorothea Tanning; “I disegni dono” dei naïves Shaker (1771); i disegni surrealistici e metamorfici di Hans Bellmer (1934)… E così via. E non mancano dilettantistiche, ingenue, e tuttavia di uno espressionismo conturbante, le performances e filmati di 200 persone disabili, che mimano parlando d’amore. La drammatica rielaborazione di Guernica destinata a far cogliere ai bambini la verità degli orrori della guerra. L’installazione interattiva dei ragazzi sordomuti al padiglione (è una novità) della Santa Sede….

Tutte queste testimonianze del passato, anche più recente, svilupattesi nel primo dopoguerra e assai prima, seguendo la logica storico-critica di cui dicevamo, ci danno ragione di quelle opere e installazioni che il visitatore degli anni scorsi poteva percepire come disordinate e gratuite, insignificanti: banali follie. La nuova impostazione del percorso della Biennale, rifacendosi in particolare alla ingenuamente inconscia visione del mondo, interiore prima ancora che esteriore, giustifica e ci fa comprendere, per fare altri pochi esempi, le crudeli fantasie dada di Enrico Baj;  gli enormi incombenti massi neri e frastagliati di Phyllida Barlowe; il nudo dal fantasmagorico, pavoneggiante cuore uterino di F.Schöder-Sonnestern; le violenze materiche oceaniche vastissime come un tratto di mare burrascoso di Maria Lassing e Thierry De Cordier; i perlacei vulcani di Melvin Moti; i due potenti blocchi di acciaio forgiato che nel 1985 Richard Serra ha dedicato a Pasolini; il minimalismo (25 barre di acciaio dorato offerte in sequenza ritmica) di Walter De Maria, e così via…

I padiglioni storici (USA, Francia, Gran Bretagna, Russia…) sviluppano installazioni concettuali niente affatto accattivanti, seppure dignitose.  Dominano, diremmo talvolta fastidiosamente, fotografie fotografie fotografie, performances tuttavia solo filmate.  Collages epigoni senza vita di autori italiani (nemmeno nominati) quali Miccini e Pignotti. La Cina invece, fra l’archeologia industriale delle Tese, oltre Arsenale ci affascina con enormi mobili disegni digitali che rappresentano la decadenza pseudoclassica della nostra cosiddetta civiltà.

E il Padiglione Italia? Ancora una volta ci riporta al vuoto insignificante: non c’è alcunché dell’arte che in varie occasioni abbiamo guardato con interesse negli ultimi due anni. Non siamo il miglior paese del mondo per cultura artistica: ma qualcosa di meglio, per esempio Paolini e Baruchello qui presenti, hanno di solito da offrirci.

Comunque rimane l’importanza (che confidiamo venga sviluppata in futuro) dell’idea del Palazzo Enciclopedico.

                                                             Gio Ferri
                                                        

Nessun commento: