L’Isola di San
Giorgio, pulvurulenta, galleggia improbabile in un improbabile mare, più che
mare, lastra di lavagna, mentre, d’attorno, come se nulla fosse, vanno
gondolieri e pescatori. Vi galleggia una chiesa che è un paravento d’oro: non vi si
può entrare nemmeno per miracolo.
Piazza San Marco,
tagliata in due da una diagonale che separa la parte in ombra da quella in
luce, mostra per questa cagione palazzi e persone, cadute sotto l’imperio della
parte in ombra, coagulate in grumi di colore che pare si stiano staccando come
smalti refrattari al più fievole lume, mentre nella restante assolata zona,
vento è meno tagliente e tinte hanno raggiunto il loro grado di saturazione.
Gondola scivola sul
nulla, incatramando l’animo all’atmosfera e annodandola a un comune destino.
Con quale sforzo si seguirà il gesto che affonda il remo in un’acqua che
possiede il riflesso verdognolo del
piombo? Si ossida qualsiasi capacità riflessiva e occhio diviene vetro sporco.
Chiarore sul filo d’orizzonte, riflesso che balugina su cortine marmoree è puro
incanto che nega ogni via di fuga. Scolpito è il tempo: non si può più andare
né avanti né indietro in cupa ora.
“Capriccio con tempio romano e ruderi”. Ciò che del tempio resta non
è congruente costruzione: appare rotto come cariato dente da cui gramigne e
arboscelli si librano nell’aria. Cielo smosso da vento, come fosse composto da
zolle, si squassa in chiazze e proietta folgoranti lumi e ombre sbattute su
asini, pastori e pecore. Persino natura si adegua alla presenza del rudere
e mostra tronchi vetusti e secche foglie.
Simile a dipinto su cinese
porcellana, paesaggio di fantasia con marina, torri e cascinali è dipinto con
spigoli formati da convesse linee, tetti aguzzi, puntuti pini, tronchi spezzati
e diroccate masse. E tali verticali, eleganti, fuggevoli segni hanno
consistenza che svanisce man mano che s’innalzano.
“Capriccio con marina, torre diroccata e palme”. Il trapasso
continuo di un colore nell’altro: sasso che si sgretola in polvere, sperone
roccioso che s’aggrappa a dorsale collinare, torre diroccata che ha la sua
speculare gemella sul dirimpetto colle, alberi che si rincorrono come un’eco
sulle colline dislocate su più profondi piani, infangati abiti di villici, mare
che si tinge di cielo e cielo che si distende sulla tela grazie a raffiche di
vento fanno di questo quadro un instabile terracqueo simulacro.
“San Pietro di Castello”. Il colore non resta fermo sulla tela, non
si essicca, è tremulo come un albume d’uovo e sporcherebbe le dita se si
toccasse il quadro. A tratti, rantola, non ce la fa a tenersi, scivola. Chiazze
di materia decadono dalla gondola e dagli stracci e ponte si solleva, nemmeno
tocca più le sponde. Che strana isola è mai questa, con l’acqua che si
prosciuga, indurendo la rena, e col cielo che scolora verso destra!
“Paesaggio di fantasia con tende di pescatori”. Visione non si
distingue da impressione e quel che resta è ricordo più che realtà vissuta.
Muovonsi sullo scorrevole scenario tende, vesti, vele e par che sventolino alla
medesima tregua campanili e comignoli. Acqua e cielo, infidi sempre, si danno
perenne infingarda mano, si fondono mentendo, si separano fingendo.
“Il canale della Giudecca e la punta di Santa Maria”. Si avrebbe voglia
di accendere il lume di una candela dinanzi a questa spegnentesi sponda del
canale della Giudecca. La luce si è asciugata e il risicato margine di distinzione
consente di fissare un tempo morto, nonostante alacre sia il lavoro dei
pescatori sulle barche.
“Il Rio dei Mendicanti”. Luce, come fosse
dotata di generosità, impera eternamente sulla disfatta riva dei mendicanti.
Balugina inestinguibile avendo preso in ostaggio il tempo. Si va e si viene in
un sopravvissuto spazio.
“Il Canal Grande e Cà Pesaro”. Un corrusco, geloso
cielo si tiene aggrappato all’acqua, nel sorgivo punto in cui fuoriescono i
palazzi. Tiene tutto ben saldo in ferrea penombra, incenerendo le vivide luci
dei marmi e dei decori. Amore serba per sé solo.
“Paesaggio di fantasia con tenda di pescatori”. Fra cascami di tende
e vele, di dinoccolati alberi, di fusti imbricati da corde, di pescatori, di
viaggiatori e viandanti, fra barche che gareggiano in altezza con torri e
cupole, la visione albula e rosata tremola e vacilla come una gelatina. Fermo è
solo l’enorme vaso su pilastro all’ingresso del porto, che serve ad ancorare la
visione: non è miraggio.
Rosa
Pierno
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