domenica 19 giugno 2011

Vittorio Gregotti “L’ultimo hutong” Skira 2009

In quale modo Vittorio Gregotti affronti la progettazione architettonica nella nuova Cina è esemplificato in questo articolato libro, capace di attrarre non solo gli architetti, ma  tutti i lettori interessati a comprendere quali siano i problemi da affrontare nella pratica architettonica e, contemporaneamente, a cogliere l’occasione di avvicinarsi, e non superficialmente, alla cultura cinese. Il catalogo è corredato da una messe di foto e disegni pregevoli che guidano il lettore nella conoscenza dell’architettura e dell’urbanistica della Cina millenaria, profondamente diverse da quelle occidentali.

Che progettare voglia dire essenzialmente confrontarsi con la storia culturale e territoriale, oltre che specificatamente architettonica, assume un’evidenza particolare in questo libro, poiché da sempre Vittorio Gregotti si batte per una pratica architettonica che non consideri l’oggetto architettonico come un elemento estraneo da innestare nel tessuto urbanistico. La buona architettura è in questo senso individuata attraverso la valutazione di un principio insediativo specifico, che tenga conto della storia architettonica e urbanistica in cui si va a inserire, affinché sia esso a sostenere le decisioni, anche diverse,  e la definizione di nuove relazioni fra l’esistente e il nuovo. Poiché, per Gregotti, altrimenti, “con l’estinguersi dell’ossigeno della storia si spegne anche il fuoco dell’utopia, e quindi forse anche quello delle arti”.
 
Dunque, la maggior parte del libro si presenta come uno studio sulla società cinese, sulla sua evoluzione culturale e sulle direttrici di sviluppo che la società nel suo insieme si dà: “Quale cultura si associa all’emergere della Cina? Quale estetica, quale filosofia dell’urbanesimo, del paesaggio e della vita sociale?” Il che non è prendere alla lontana il problema della progettazione, ma affrontarne direttamente la questione centrale. 

Molte delle risposte che lo studio affrontato da Gregotti fornisce sono sconfortanti: “La Cina è il cantiere del mondo, ma la maggior parte di ciò che viene costruito mi sembra un’ottusa imitazione dei modelli occidentali” e procede criticando l’educazione antistorica e antiestetica e le ragioni del business, dunque, delineando le difficoltà della Cina di “esprimere una sintesi feconda fra la propria tradizione e la modernità”. Ma ciò si scontra anche con la non riproducibilità del modello di sviluppo occidentale sulla scala demografica cinese. E, dunque, la soluzione non può essere una semplice “esportazione” dei nostri modelli progettuali.

All’individuazione dei nodi da risolvere, delle questioni che l’architettura è chiamata ad affrontare, si affiancano i giudizi negativi di Gregotti  verso le architetture prodotte dalle archistar occidentali, le quali operano nella negazione di qualsiasi specificità delle condizioni e di ogni tradizione culturale locale, mentre appare essenziale “una generale presa di coscienza delle ragioni della propria storia” per stabilire con essa la distanza critica capace di fondare identità comprensibili e civili, sensibili alle diverse condizioni storiche e geografiche e alle loro prospettive future.    

L’idea di pianificazione di Vittorio Gregotti è l’idea di una costruzione ragionevole e flessibile basata su ipotesi di trasformazione effettuate nell’interesse collettivo, fondata “su un’architettura la cui identità disciplinare è fondamento di ogni positiva e necessaria relazione interdisciplinare, in grado di offrire con i propri strumenti qualcosa in termini di uso  e immagine proprio di ciò che non è presente”, assieme al miglioramento dell’abitabilità del territorio e della città e alla ricerca di una mediazione sociale da parte delle azioni dell’architettura.

Ecco così delineate da Gregotti con grande fermezza le coordinate all’interno delle quali egli imposta la propria teoria progettuale: “ Riscoprire i linguaggi e i valori, le forme e i luoghi adatti per ospitare l’anima antica della Cina, è una missione dell’architettura del XXI secolo che non ha solo una dimensione estetica”: sono, infatti, in gioco la qualità della vita, la dignità umana, la salvezza dell’ambiente, il futuro del nostro pianeta.  

Rosa Pierno  

Nessun commento: